La banca cooperativa tradisce il territorio

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Aumenti di capitale, costi da tagliare, margini di interesse compressi (e aggravati dal rischio Paese), crediti in sofferenza: a 4 anni dall’inizio della crisi, le maggiori banche quotate continuano a perdere valore. Tra le più colpite, quelle a struttura cooperativa: dai massimi del 2007, Banco Popolare -90%; Bpm -86%; Ubi -77%. Numeri disastrosi. Eppure, le banche cooperative, legate al territorio, immuni da derivati Otc e finanza creativa, dovevano essere il prototipo dell’italica virtù, che le avrebbe protette dalla crisi. Il problema, invece, è proprio la struttura cooperativa, inconciliabile con l’attività  di una grande banca che voglia accedere al mercato dei capitali. La crisi lo ha reso evidente agli occhi di tutti; tranne che dei loro amministratori. Al punto che il governatore Draghi ha appena auspicato il ricorso a una legge: che sarebbe insufficiente, però, se simile alle varie proposte avanzate negli anni.
La banca cooperativa funziona sulla base di un principio semplice: i soci rinunciano, come azionisti, a parte dei profitti, per ricevere, come clienti, servizi a costi e condizioni migliori. Il legame socio-cliente preclude i puri azionisti di capitale, interessati solo al valore del loro investimento, di cui il premio di controllo è una parte importante. Il voto capitario, scoraggiando i capitali, serve proprio per preservare questo legame.
Un’implicazione ovvia di questo legame è l’ambito territoriale operativo, che deve essere limitato. Quindi le banche cooperative vanno benissimo se agiscono localmente per offrire servizi a buon mercato ai propri soci. E così ce ne sono tante: le BCC italiane come le Cooperative banks e le Mutuals statunitensi. All’estero ci sono anche grandi istituzioni a struttura cooperativa, ma non sono quotate. E se vanno in Borsa, è solo per fornire un prezzo di riferimento al quale i soci possano scambiare i titoli, senza perdere però la vocazione territoriale; come Popolare di Sondrio.
I problemi sorgono se Borsa e voto capitario vengono utilizzati da presidenti (a volte veri padri padroni), amministratori, imprenditori, interessi locali vari o sindacati (vedi Bpm) per costruire conglomerati bancari a livello nazionale, senza averne i capitali, e blindare il controllo. Ne consegue una crescita solo tramite fusioni tra banche popolari, per perpetuare il controllo da parte dei soliti noti, attraverso una governance barocca tesa a ripartire gli interessi costituiti, senza dover rispondere dei risultati agli investitori. Così Banco Popolare e Ubi, con consigli duali di oltre 32 amministratori, sono cresciute fino a controllare ciascuna una quindicina di banche, con altrettanti consigli. La natura cooperativa non ha impedito una catena di crisi (Popolare di Novara, Intra, Lodi, Italease, Commercio e Industria): ma la soluzione è sempre stata una fusione accomodante con un’altra banca popolare. Non sorprende che i titoli delle grandi popolari siano tipicamente trattati a sconto dalla Borsa, e le banche stesse fra le meno capitalizzate.
Quando però la crisi ha reso evidente la necessità  di dotarsi di maggior capitale, per le popolari è emersa l’incongruenza tra il voler essere grande gruppo bancario e la struttura cooperativa: è difficile chiedere soldi alla Borsa, se poi gli investitori non contano nulla e devono sopportare di veder subordinato il taglio di costi e poltrone agli equilibri del controllo. Aumentare il numero di deleghe pro capite (come si chiede per Bpm), o allargare la quota massima di capitale e voti per eventuali investitori istituzionali (proposto il 5%) non cambia niente: pochi interessi controllano con pochi capitali.
Una soluzione sarebbe il ritorno alle origini: una scissione del gruppo in tante banche locali, indipendenti ed efficienti, legate agli interessi di un territorio. Oppure il conferimento delle aziende bancarie in una spa quotata, con le cooperative come azionisti puri, analogamente a quanto fatto dalle Casse di Risparmio con le Fondazioni. O, ancora, la trasformazione del gruppo stesso in società  di capitale. Sembra fantascienza. Ma è sempre meglio che far la fine dei dinosauri

 


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