Iraq, la primavera soffocata

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Dagli Humvees, raggiunti da due veicoli più piccoli e senza targa, sono balzati fuori, armi in pugno, gli uomini del Baghdad Operations Command, corpi speciali che rispondono direttamente al premier iracheno Nouri al-Maliki, addestrati e armati (nonché forniti di Humvees) dagli Usa. Un nucleo speciale della Brigata 43, Undicesima divisione dell’esercito iracheno.

Fanno irruzione negli uffici, sequestrano cellulari, computer e documenti. Trascinano fuori, ammanettati e bendati, tredici attivisti riuniti nell’ufficio.

Gli attivisti, secondo quanto denuncia un report dell’ong Human Rights Watch, sono stati trattati con brutalità , picchiati e interrogati per ore. ”Perché vi siete riuniti? Ma davvero credete di poter rovesciare il governo?”, urlava uno degli ufficiali che conduceva l’interrogatorio dei fermati, come racconta un’attivista arrestata. Sono ancora quattro quelli detenuti dai servizi di sicurezza iracheni. Tutti studenti, secondo Hrw: Jihad Jalil, Alì al-Jaf, Mouyed Faisal, Ahmed al-Baghdadi.

I loro arresti, però, sono avvenuti il giorno prima della retata negli uffici di Where are my rights? Sono stati catturati in Tahrir Square, omonima di quella cairota, a Baghdad. Protestavano in strada, chiedendo la fine della corruzione e l’attivazione dei servizi di base nel Paese. Pur essendo seduti su milioni di dollari di petrolio, infatti, gli iracheni hanno ancora problemi con acqua, luce elettrica, scuola e sistema sanitario. Hrw fa sapere che il governo non ha risposto alle sollecitazioni dell’ong in merito alla sorte dei quattro leader studenteschi, ma due giorni dopo il Baghdad Operations Command ha passato una nota al canale televisivo al-Iraqiya. Il documento parla di arresti per contraffazione delle loro carte d’indentità .

Un’accusa poco convincente, in particolare se si pensa che uno dei quattro studenti, dieci giorni prima dell’arresto, era stato aggredito per strada, minacciato e picchiato. ”Aveva il terrore di dormire a casa, dove squillava il telefono, e veniva minacciato da persone che non si qualificavano”, ha raccontato la sua famiglia a Hrw.

Stesso clima di repressione e intimidazione stanno subendo gli ‘indignados’ iracheni nel Kurdistan. Hrw ha denunciato la storia di Isma’il Abdullah, leader delle proteste a Suleimanya. Le autorità  della regione autonoma dell’Iraq settentrionale hanno promesso un’inchiesta rapida e indipendente sul pestaggio che ha subito l’attivista, una delle voci più ascoltate nelle mobilitazioni dei giorni scorsi, che hanno portato in piazza migliaia di persone. Anche in Kurdistan, questi giovani chiedono la fine del sistema di potere clientelare che avvelena la vita politica ed economica della regione.

Ecco, insomma, che la primavera araba in Iraq è soffocata. Si era molto parlato delle manifestazioni di giovani, interconfessionali ed interetniche, che avevano scosso le piazze del Paese chiedendo la fine delle divisioni settarie e del malcostume dilagante della corruzione. Gli Usa, però, come in Bahrein, non hanno appoggiato questi ragazzi, evidentemente differenti dai giovani libici, egiziani o tunisini. In compenso, però, cominciano a circolare voci di un rinvio della partenza delle ultime truppe Usa dall’Iraq.

Secondo il calendario stabilito dall’amministrazione Obama, gli ultimi marines (ne sono rimasti 50mila) dovrebbero lasciare il Paese entro il 31 dicembre 2011. Raed Sabah al-Alwani, leader delle milizie sunnite che hanno contribuito a sconfiggere al-Qaeda in Iraq alleandosi con gli Usa, ha chiesto alla fine di una riunione di sceicchi sunniti tenuta a Ramadi il 2 giugno scorso la sospensione delle operazioni di smobilitazione statunitensi. ”Le milizie sciite di Moqtada al-Sadr si riorganizzano, finanziate dall’Iran. Gli Usa non devono andare via, altrimenti tornerà  la guerra civile”. Moqtada e i suoi hanno organizzato una manifestazione, il 1 giugno scorso, a Baghdad per chiedere il ritiro immediato delle truppe Usa.

Si crea un clima instabile, sottolineato dalle bombe esplose a Tikrit e Ramadi (zone sunnite) negli ultimi giorni. Bisogna vedere cosa deciderà  l’amministrazione Usa, ritenendo magari che è necessario restare. Qualunque cosa si decida a Washington, però, sarebbe un bel segnale costringere l’esecutivo di Baghdad a rilasciare gli attivisti. Per non dare adito a polemiche su come e quanto il rispetto dei diritti umani e dei diritti delle popolazioni civili in giro per il mondo detti l’agenda della politica estera di Obama.


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