Io, l’Italia peggiore

by Editore | 20 Giugno 2011 7:04

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L'”Italia peggiore” lavora. Tutte le mattine in fabbrica, in ufficio, nei cantieri, nei call center, nei supermercati, negli ospedali, nelle radio e nelle televisioni. Da nord a sud. L'”Italia peggiore” ha studiato, parla le lingue, paga le tasse e versa anche i contributi previdenziali. Qualche volta è doppiolavorista. L'”Italia peggiore” non è più giovane e non è nemmeno la nuova middle class. Astrid D’Eredità , 31 anni, archeologa, nata a Taranto, laureata a Bari, specializzata a Napoli, occupata a Roma, impegnata nelle associazioni professionali, appartiene alla categoria dei “peggiori” secondo la rozza classificazione socio-antro-politica del ministro pro tempore della Repubblica, Renato Brunetta. Astrid D’Eredità , va da sé, è precaria. Come i tanti «arrabbiati, impazienti, indisponibili… e anche indignati» che da ieri hanno deciso di protestare davanti a Montecitorio per chiedere diritti, welfare e lavoro.
Vita da precaria, allora. «Si inizia all’apertura del cantiere, insieme agli operai. Alle sette, sette e mezzo del mattino. C’è la pausa pranzo e poi fino alle quattro del pomeriggio. Retribuzione tra i quaranta e i cento euro netti al giorno, per una media di due settimane al mese». Cottimo post-industriale. «Ci pagano – continua D’Eredità  – le ditte appaltatrici degli scavi, in genere una cooperativa archeologica che ha vinto la gara indetta da una struttura pubblica. Noi archeologi siamo quasi tutti a partita Iva. Una formula capestro, anche dal punto di vista fiscale: ci dissanguano. Scarico poco più che le spese per il cellulare. Di fatto siamo lavoratori subordinati. Dobbiamo essere pronti a prendere servizio pure quando ci chiamano la sera prima. È un aspetto dell’instabilità  della nostra vita».

Sono le false partite Iva. Secondo un’indagine dell’Isfol (l’Istituto per la formazione professionale dei lavoratori) sono 250 mila circa i lavoratori indipendenti con partita Iva, sono intorno al 7 per cento dei 3,6 milioni di lavoratori con contratto non standard. I contratti un tempo definiti atipici, oggi tipici (molto) per i giovani: il tempo determinato, l’interinale o a somministrazione, la formazione e lavoro, l’apprendistato, la collaborazione a progetto o co. co. co, i tirocini e il job on call). Sono le formule del lavoro precario che la legislazione ha affastellato una dopo l’altra. Formule per i giovani, appunto. Perché la crisi ha fatto crescere la precarietà  tutta al giovanile o quasi: cancellando molti posti di lavoro e riducendo le possibilità  di transito dall’instabilità  al contratto a tempo indeterminato. Lo raccontano i giovani, lo dicono i numeri dell’Istat: nel 2009 ogni cento giovani atipici circa 16 erano occupati stabilmente dopo un anno. Ma quella percentuale era del 26 (dieci punti di più) tra il 2007 e il 2008.
«Prendo sì e no mille euro al mese», dice D’Eredità . Casa in affitto. Lei la divide con il suo compagno. Molti la dividono tra tre, quattro, cinque persone. «In una costante dimensione universitaria. Un passo indietro dopo l’altro». Perché questa è una generazione di lavoratori che non comprerà  la casa. Un cambio di direzione, nel paese in cui quasi l’80 per cento della popolazione vive in un’abitazione di proprietà  o che appartiene a un familiare, e che proprio per questo non ha mai messo in campo una politica per gli affitti. I precari pagano anche questo. «Perché le banche – dice D’Eredità  – a noi soldi non li prestano. Vogliono la garanzia. E quando serve arriva quella dei genitori». D’altra parte le banche non ti prestano i soldi se non li puoi restituire. Certo, tutti i grandi istituti presentato offerte di mutui pure per gli atipici, ma poi, senza garanti, non vai molto avanti nella pratica. Unicredit, per esempio, spiega che da loro si può sottoscrivere un “Mutuo progetto lavoro”, con diverse soluzioni tecniche, destinato alla clientela privata con contratto di lavoro a termine. Il punto decisivo – si capisce anche solo alla lettura della proposta senza andare a una filiale della banca – è nella documentazione che si deve presentare. È lì che ti chiedono la documentazione anagrafica e reddituale dei garanti. È lì che la tua busta paga, intermittente e leggera, non è sufficiente.
Le banche ma anche la burocrazia ostacolano la vita dei precari. La banche non danno i soldi e l’amministrazione (seppur non dovunque) è ancora organizzata secondo le rigidità  del lavoro fisso. Racconta D’Eredità  di essere rimasta senza il medico di base per circa un anno. «Lavoro a Roma ma sono residente a Taranto. In questi casi puoi avere un medico di base provvisorio se sospendi l’iscrizione da quello di provenienza. Bene, quando sono andata alla Asl per la scelta del medico provvisorio mi hanno chiesto anche il contratto di lavoro che io in quel periodo non avevo. Sono restata per quasi un anno senza lavoro e senza medico. Ho cambiato domicilio e anche la Asl che non mi ha più chiesto il contratto di lavoro». Anche alla Regione Lazio confermano che «è sufficiente essere domiciliati nella Regione». Poi vai a vedere i documenti che le varie Asl (per esempio la Asl Roma C) richiedono per la scelta del medico per i cittadini non residenti, e leggi che quando il motivo del cambiamento è legato al lavoro è necessaria anche una «dichiarazione del datore di lavoro». Ma se non sei un lavoratore autonomo o sei un “contratto a termine” in attesa di rinnovo? E se non sei neanche più uno studente? L'”Italia peggiore” non sa darsi una risposta.
Questa Italia non risparmia nulla. Un po’ come l'”altra” scesa sotto la media europea per la propensione al risparmio (-12,1 per cento rispetto al 2009). Una debacle per il popolo un tempo più formica del Vecchio Continente. «Metto da parte quello che può servirmi quando non lavoro. Quello che può servirmi nell’emergenza, diciamo intorno ai duemila euro».
Poi c’è la famiglia, quella d’origine non quella che vorresti mettere su ma che non puoi. «Non me la sento – dice l’archeologa – di avere un figlio senza la sicurezza del lavoro. Ma questa non è una scelta. La vivo come un’imposizione». È la famiglia d’orgine invece il perno attorno al quale gira il mondo del lavoro precario. La famiglia per i prestiti, la famiglia per le garanzie, la famiglia per integrare il reddito, la famiglia per le cure dei bambini (nei casi in cui ci sono), la famiglia dove continuare a vivere. Perché – si legge nell’ultima Relazione annuale della Banca d’Italia – «la quota di trentenni conviventi con i genitori è salita dal 16 per cento del 1981 al 38 per cento nel 2009». Gli italiani peggiori? 

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