Indiani

by Editore | 17 Giugno 2011 6:22

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A Reggio Emilia i lavoratori indiani della Gfe stanno dando vita ad una lotta eccezionale per la sua portata simbolica. La semplice ricostruzione della vicenda permette di capirne l’emblematicità . La Gfe era una impresa cooperativa di facchinaggio creata ad hoc (esternalizzata) dalla Snatt, impresa logistica con sede a Campegine (Reggio Emilia), la quale risultava essere anche unica committente. I facchini della Gfe, circa 400 lavoratori quasi tutti di origine indiana, erano pagati poco più di 5 euro lordi all’ora ed erano assunti con un contratto da socio-lavoratore. Dopo diversi anni passati in questa condizione, i lavoratori della Gfe hanno cominciato a lottare e scioperare, con il sostegno della Cgil, ed esercitando in assemblea il diritto di voto da soci-lavoratori, hanno deciso di passare all’adozione di un contratto collettivo nazionale (firmato da Cgil, Cisl e Uil e dalle principali associazioni di categoria del settore).
A fronte della decisione presa dai soci-lavoratori la Snatt ha deciso di interrompere ogni rapporto commerciale con la Gfe condannandola alla chiusura, ha creato due nuove imprese cooperative e ha imposto a queste ultime l’applicazione di un contratto collettivo nazionale rinomato per essere un contratto collettivo «posticcio». Una volta create, le due nuove imprese cooperative hanno cominciato ad assumere lavoratori chiedendo loro di sottoscrivere individualmente un contratto da cui deriverebbero condizioni di lavoro molto simili a quelle che i lavoratori della Gfe avevano deciso di cambiare. A quel punto si è determinata una spaccatura: una parte di lavoratori indiani, circa duecento, hanno deciso di sottostare alle nuove condizioni imposte; altri lavoratori indiani, anche questi circa duecento, hanno deciso che la situazione che si era determinata era inaccettabile, che se avessero piegato la testa probabilmente non sarebbero stati più in grado di rialzarla e hanno costruito una mobilitazione che dura ormai da mesi.
È dall’autunno scorso, infatti, che di fronte allo stabilimento della Snatt (che poi è lo stesso luogo dove lavoravano i soci-lavoratori della Gfe) i lavoratori indiani organizzano picchetti. Per diversi giorni i lavoratori, esasperati da una situazione che non si sblocca, ma evidentemente decisi a proseguire fino alla fine la loro lotta, hanno messo in atto uno sciopero ella fame e della sete. L’attenzione dei media locali sulla vicenda ha avuto alti e bassi e stranamente in poche occasioni la lotta dei lavoratori indiani della Gfe ha guadagnato la ribalta nazionale. Eppure questa vicenda ha la capacità  di dirci molte cose.
In primo luogo esprime in pieno la pervasività  dei processi di deflagrazione sociale che sono in atto in questo periodo e il livello di violenza a cui sono giunte le relazioni industriali in questo paese. Non a caso in uno degli articoli usciti su un quotidiano locale nei giorni scorsi il caso della Gfe è stato accostato a quello della Fiat di Pomigliano e di Mirafiori. Similmente ai casi che hanno visto protagonisti i lavoratori in altre vicende, anche per il caso reggiano si sono sprecati gli inviti da parte dei politici locali (di quasi ogni segno) ad accettare le ragioni dell’impresa come condizioni vincolanti per il mantenimento dell’attività  produttiva. Ancora una volta è stato messo in scena lo spettacolo tragicomico in cui signori e signore per bene con un reddito annuale di svariate decine (se non centinaia) di migliaia di euro spiegano a degli altri signori e signore che, nonostante tutto, conviene accettare di lavorare per 5 euro all’ora, se mai a condizioni peggiori, perché altrimenti potrebbe essere peggio. Sono tante quindi le assonanze tra il caso della Gfe e i casi di delocalizzazione di cui molto si è parlato. Con un aspetto specifico in questo caso: per delocalizzare non occorre andare in Serbia. Basta cambiare qualche carta e far nascere di colpo «due nuove cooperative».
In secondo luogo la vicenda riesce a fare emergere tutta la complessità  delle relazioni che intercorrono tra forme di protezione e solidarietà  che qualcuno definisce «comunitarie» (termine che andrebbe utilizzato con cautela), il conflitto sociale e le forme di protezione e di solidarietà  derivanti dalla contrattazione collettiva. Chiunque abbia avuto modo di conoscere da vicino questa lotta (supportandone le loro ragioni o contrapponendovisi) si è reso conto di quanto peso abbiano avuto nella costruzione delle iniziative di mobilitazione i rapporti di solidarietà  derivanti dall’esistenza di un reticolo relazionale a base geo-culturale. Per stessa ammissione dei sindacalisti della Cgil (unica organizzazione sindacale che ha sostenuto i lavoratori in lotta), il solo supporto fornito dal sindacato non sarebbe stato sufficiente a far resistere per tanto tempo questi lavoratori.
Allo stesso tempo è indubbio che la risposta dell’impresa, ovvero il rifiuto di applicare il contratto collettivo, ha spaccato in due la «comunità  degli indiani». Tutto ciò mette in evidenza quanto articolate siano le relazioni tra conflitto sociale, «coesione comunitaria» e forme di protezione e di solidarietà  derivanti dalla contrattazione collettiva. In questo senso la vicenda della Gfe sarebbe l’occasione per riflettere proprio su queste relazioni. E questo non tanto per limitarsi a mettere in contrapposizione le pratiche di conflitto sociale con le forme di coesione sociale di matrice «comunitaria» o per contrapporre queste ultime alle forme di protezione e di solidarietà  derivanti dalla contrattazione, ma per capirne la complessità  e le compenetrazioni (e non necessariamente le contrapposizioni) reciproche.
In terzo luogo la vicenda ha tutte le caratteristiche per essere un punto di non ritorno per quel pensiero duro a morire che vede i lavoratori immigrati, se non in diretta competizione con i lavoratori italiani, almeno causa dell’abbattimento delle condizioni di lavoro in generale. I lavoratori della Gfe segnano, infatti, la definitiva demitizzazione della figura dell’immigrato causa dell’abbattimento delle condizioni di lavoro in generale. In questo caso sono proprio gli immigrati a non accettare il radicale peggioramento delle condizioni di lavoro (a partire dalla retribuzione oraria), sono gli immigrati a non accettare che un lavoratore, di qualsiasi nazionalità  esso sia, non possa avere diverse condizioni di lavoro (e di vita) rispetto ai propri colleghi; mentre gli italiani (si perdoni la generalizzazione) tutt’al più sembrano stare alla finestra a guardare, accettando rassegnati l’inevitabilità  del processo di disassociazione della società ; sono gli immigrati con i loro corpi, «l’unica cosa che gli è rimasta» (parole loro), a tentare di bloccare un processo che, nessuno si illuda, è pervasivo e non riguarda solo una parte dei lavoratori, ma piuttosto i lavoratori di questo paese nel loro complesso, da Torino a Pomigliano. Quasi che gli immigrati, che qualcuno definisce «corpi estranei», si siano presi l’ingrato compito di svolgere il ruolo di «anticorpi» rispetto ad un germe che ha attaccato tutto l’organismo sociale.

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