by Sergio Segio | 7 Giugno 2011 17:55
”Greenpeace[1] è nata sul mare, lo frequenta da tempo. Come tutti coloro che lo frequentano da tempo, è difficile non accorgersi del degrado. Soprattutto se uno lo frequenta davvero, perché in superficie sembra una uniforme tavola blu, che non cambia mai, ma guardandoci bene dentro purtroppo le differenze ci sono e si vedono”. Alessandro Giannì è il direttore delle campagne di Greenpeace, una delle più famose organizzazioni non governative del pianeta in tema di salvaguardia dell’ambiente.
”C’è una situazione di generale degrado, apprezzabile a molto livelli, in proporzione agli impatti che noi creiamo sul mare. Ci sono impatti che sono diffusi e altri che hanno una scala più limitata. La situazione può sembrare più o meno grave, a seconda del livello analizzato”, spiaga Giannì.
”Impatti diffusi, come ad esempio quello del cambiamento climatico, possono determinare un danno rilevante in maniera molto rapida anche in aree che non sarebbero tecnicamente aggredite dall’uomo. Un esempio: lo sbiancamento dei coralli, che è un effetto tipico del cambiamento climatico, che può avvenire anche in aree assolutamente remote, dove gli umani mettono piede raramente. Oltre al cambiamento climatico, e quindi il riscaldamento globale, il mare subisce un altro impatto: quello dell’aumento dell’anidride carbonica che ne determina la sua acidificazione, che pur essendo un problema del quale si parla meno, ha un effetto grave in mare, soprattutto ad alte latitudini, in particolare ai poli, perché la solvibilità dell’anidride è maggiore in acque fredde, ottenendo un effetto simile a quello generato da un guscio d’uovo immerso nel succo di limone. Il calcare si scioglie e quindi tutti gli organismi che hanno un guscio calcareo – come crostacei, molluschi eccetera – tendono a scomparire. A questi impatti globali si affiancano impatti più localizzati, dei quali il più esteso è di sicuro quello della pesca, che secondo la maggior parte degli scienziati è responsabile della distruzione degli ecosistemi marini, soprattutto in aree relativamente lontane dalla costa, che hanno comunque per effetto fenomeni d’inquinamento costiero”.
La pesca è un tema molto caldo in questo periodo, anche e soprattutto in vista della riforma del settore che la Commissione europea ha annunciato per il 13 luglio prossimo. Le associazioni di pescatori, in attesa del documento, denunciano l’esclusione della categoria dall’elaborazione del testo. Greenpeace non è d’accordo. ”Il problema dei pescatori è un altro ed è quello che non vengono sentiti solamente loro – risponde Giannì – Questo è quello che è accaduto fino ad adesso. La Commissione europea ha fatto consultazioni aperte a tutti, pescatori e non pescatori. Questa è l’unica anomalia rispetto al passato. Anche in Italia esiste un comitato che regola la materia, il cosiddetto parlamentino della pesca, presso il ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, nel quale siedono solo i pescatori. Esiste un altro comitato consultivo riguardo all’utilizzo dei fondi comunitari di settore, dove siedono anche le associazioni ambientaliste, ma purtroppo queste ultime non sono invitate alle riunioni ristrette e possono solo vedere all’ultimo momento quello che accade. Quindi le associazioni della pesca, corresponsabili del disastro del settore in Italia, nel Mediterraneo e in Europa, credo che debbano stare in silenzio. Anzi, meglio ancora, dovrebbero riflettere su quello che hanno combinato rispetto ai disastri dei quali loro sono corresponsabili. Quando le associazioni ambientaliste dicevano che si stava pescando troppo e male e che bisognava lottare contro la pesca pirata e illegale perché era nell’interesse degli stessi pescatori eliminare le sacche d’illegalità , loro sono sempre stati dalla parte della pesca intensiva e illegale. Su questo punto bisogna essere chiari e seri. Riguardo a quelle che saranno le proposte della Commissione noi staremo a vedere. Per ora, nero su bianco, c’è scritto solo che nei paesi europei c’è un solo paese che è entrato tutte e due le volte nella lista biennale che il Dipartimento del Commercio Usa – per la precisione il National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA)[2] – dei paesi i cui pescherecci fanno pesca pirata e questo paese è l’Italia. In questo contesto, crediamo che l’Italia farebbe bene a prendere coscienza delle sue responsabilità , iniziando a comportarsi seriamente, partendo ad esempio da un regime sanzionatorio serio. Che non deve essere inutilmente vessatorio, ma che semplicemente tuteli i lavoratori onesti rispetto ai pirati che hanno massacrato le risorse di pesca del nostro paese”.
Ma è davvero impossibile una riorganizzazione del settore che armonizzi la tutela dell’ambiente con le esigenze commerciali legittime di un settore economico importante come quello della pesca?
”La teoria scientifica della pesca è molto chiara: nella situazione attuale si guadagnerebbe di più pescando di meno. Questo è il paradosso in cui viviamo, essendo in una situazione che viene definita di over fishing”, spiega l’esponente di Greenpeace. ”Perché questo non accade? Perché questo differenziale è colmato dagli aiuti economici che vengono erogati ai pescatori. In questo momento il comparto, in Italia e non solo, vive di questo. A livello mondiale ci sono stime che parlano di un volume tra i 35 e i 50 miliardi di dollari l’anno di sussidi alla pesca. Anche nell’Ue i livelli di contribuzione sono piuttosto elevati, su scala comunitaria, nazionale, regionale, locale e così via. Il problema quindi è che il sistema non ha un’economia che si basa sulla vendita di quello che viene prodotto, ma drena risorse pubbliche per distruggere un’altra risorsa pubblica come l’ambiente e il mare. La Commissione si occupa di questo e fa presente ai pescatori che non potrà dare sempre più fondi se loro pescano sempre di meno. Arrivano fondi che i pescatori utilizzano per incrementare l’attività a fronte di pescato sempre minore e quindi chiedono più soldi. La Commissione deve arrivare al punto di dare incentivi per pescare meno, ma sarebbero necessarie scelte politiche coraggiose, perché ormai il pescatore è un terzista, schiacciato nella morsa tra fornitori e armatori da una parte e dal mercato del pesce dall’altra. Chi è che ha il reale controllo di questa catena? Si fanno davvero gli interessi dei pescatori, o si stanno facendo gli interessi commerciali degli altri livelli della catena, che sono sopra e sotto i pescatori? Già qualche anno fa abbiamo posto questo problema all’attenzione delle associazioni della pesca, ma non abbiamo mai ricevuto risposta. Noi continuiamo a sostenere che non sempre vengono fatti gli interessi dei pescatori e infatti i dati del ministero e di Greenpeace parlano chiaro: dal 2000 al 2006 si sono persi circa 16mila posti di lavoro, 13mila dei quali nel settore della piccola pesca. A parole tutti difendono i piccoli pescatori, magari in nome della pesca sostenibile, ma nei fatti nessuno ha mosso un dito per loro. Si è continuato a spendere tanti soldi, come per la pesca a strascico, dove la rottamazione dei vecchi e inadeguati pescherecci ha finanziato solo l’acquisto di nuove imbarcazioni. Così in Italia è stata ammazzata la piccola pesca, espellendo dal mercato la metà degli operatori, visto che hanno conferito tutte le risorse (e parlo di cento e passa milioni di euro) alla pesca a strascico, a cui sono stati dati soldi per smantellare barche vecchie, ma anche per comprare barche nuove . Questo è quello che è stato fatto in Italia”.
Un altro aspetto che in una giornata come quella dedicata alla salute dei mari è importante investe le cosiddette ecomafie. In Italia, tempo fa, ha destato molto scalpore l’inchiesta sulle cosiddette navi dei veleni, cariche di rifiuti tossici e affondate dolosamente in mare. A che punto sono le indagini in materia e qual’è la situazione generale rispetto ai traffici in mare?
”Il traffico di sostanze pericolose purtroppo continua. Ogni tanto si scopre qualcosa e s’inventano nuovi traffici. Ad esempio adesso c’è un traffico di rifiuti elettronici, spacciati come strumentazione di seconda mano. Rispetto ai grandi traffici la sensazione è che questa attività sia pressoché annullata o per lo meno ridotta – risponde Giannì – Resta l’esigenza di fare chiarezza riguardo ad alcune situazione controverse. Esiste un Osservatorio per un Mediterraneo libero dai veleni[3], del quale Greenpeace fa parte con realtà dell’ambientalismo e della società civile, che ha posto alcune domande, alle quali purtroppo non sono state date risposte per esempio dal ministero dell’Ambiente, riguardo alle navi dei veleni. Non crediamo che tutto quello che è stato denunciato sui media sia necessariamente vero, almeno rispetto ai numeri, ma vorremmo avere risposte convincenti sull’identificazione dei relitti e sul loro livello di pericolosità ”.
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