Il rischio sotto la vittoria

by Editore | 19 Giugno 2011 17:20

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Sul conto del cambiamento culturale si possono mettere oggi, annota Vendola, risultati che solo due mesi fa parevano sogni minoritari: lo spostamento dell’ordine del discorso provocato dal movimento delle donne («il primo ad aver svelato la natura ideologica del berlusconismo»), da quello dei precari, dalle lotte operaie; lo scompaginamento del campo riformista, un aggettivo troppo a lungo sequestrato dal moderatismo e che ora può tornare a declinarsi con questioni radicali, da quella dei beni comuni a quelle poste dal gay pride; la sconfitta del politicismo politologico («o ch’è lo stesso, della politologia politicista») e dei suoi dogmi indimostrati, tipo quel «si vince al centro» che non si sa mai dove e in che cosa veda il centro non dell’emiciclo parlamentare ma di una società  «ormai largamente sconosciuta». Il cambiamento politico ne dovrebbe conseguire: c’è di nuovo una sinistra in campo, rinata nel rapporto con i movimenti; e c’è un centrosinistra che invece di ascriversi in toto la paternità  della vittoria bene farebbe ad aprirsi stabilmente alla «complessità  e alla pluralità » che c’è fuori dai partiti, e a realizzare che non si vince al centro, «si vince quando la politica si riconnette alla vita».
Ma ecco che qui scatta l’asimmetria fra il cambiamento culturale (che peraltro «è già  politica», direbbero le femministe) e quello politico tradizionalmente inteso. Perché il centrosinistra, invece di aprirsi e di lasciarsi scompaginare e ridisegnare dagli eventi, rischia di irrigidirsi sui suoi tic; e invece di afferrare i messaggi che le vengono dalla vita rischia, come sempre, di immunizzarsene. I segni sono tutti sul campo. Le profferte alla Lega, dimentiche che nella Lega non c’è il meglio ma il peggio della filosofia della destra dell’ultimo ventennio. L’occhio di riguardo per Tremonti, dimentico che «nel tremontismo c’è il cuore pulsante del berlusconismo», un rigore dei conti che non intacca le ragioni della crisi, un vincolo europeo che taglia le radici sociali dell’Europa.
Ma soprattutto, segno eminente fra gli altri, incombe il fantasma della manovra economica, e quella domanda strisciante – a chi tocca farla, al centrodestra oggi o al centrosinistra domani? – che messa così, sbotta Vendola, «ci mette in apnea», come se si trattasse sempre e solo di togliere (tutto a chi ha poco, poco a chi ha molto) e tagliare, e non di riscrivere l’equità  sociale di tornare a immaginare una crescita possibile legata a un diverso modello di sviluppo. La politica ne consegue: il fantasma della manovra ha un gemello che si chiama unità  nazionale, o governo di transizione o simili. Ed è una prospettiva tutt’altro che archiviata, anche se temporaneamente oscurata dai risultati fortemente “bipolarizzanti” delle amministrative e dei referendum.
Dunque fa bene Mussi a ribadire che «nel caso di scioglimento delle Camere noi non vediamo alternative alle elezioni subito», e Vendola a ricordare che da venti anni di berlusconismo non si può uscire «con una spallata di Palazzo». L’alleanza con «il popolo dei referendu» traccia la rotta per il futuro. Diversamente, ci sarebbero brutti ritorni di passato. Per chi ha la memoria lunga, vale un richiamo al 1976. Quando il Pci incassò alle urne l’onda lunga del decennio dei movimenti, e poi mise quel risultato al servizio dell’unità  nazionale e della fermezza sul caso Moro. Tutti i guai successivi cominciarono da lì.

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