Il paradigma portoghese

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Ieri, dopo pochi giorni dalle elezioni, il presidente della Repubblica portoghese Annà­bal Cavaco Silva, ha nominato Pedro Passos Coelho primo ministro. Per il momento, il nuovo governo, che si suppone entrerà  in carica entro il 23 giugno, sarà  composto dal Partido Social Democrata, centro destra (Psd), e il Centro Democrata e Social, di destra (Cds-PP).
Dato per acquisito che il programma della «troika» è per questa nuova maggioranza appena un punto di partenza per un ampio progetto di ristrutturazione e di come vi sia una sostanziale continuità  ideologica tra i progetti della Bce, della Ue di José Barroso (portoghese ed ex primo ministro del Psd tra il 2002 e il 2004) e il governo di Passos Coelho, la prima vera questione da porre riguarda il futuro del principale partito dell’opposizione il Partido Socialista (Ps). Al momento non è chiaro a nessuno quella che sarà  la sua strada, si sa solo che Josè Socrates, il suo segretario e primo ministro uscente, si ritirerà  a vita privata e che tra luglio e settembre bisognerà  rinnovare programmi, strategie e leader. Insomma tutto da rifare in un contesto non facile visto che è stato proprio il governo socialista a negoziare con la Ue-Fmi-Bce e a firmare l’accordo per il prestito.
Se da un lato la nuova coalizione può contare all’Assembleia da Republica su numeri molto confortanti (circa 130 deputati su 230) dall’altro lato è vero che molti dei progetti di riforma oggi sul tavolo di Passos Coelho passano attraverso leggi costituzionali e qui i voti necessari salgono da 116 a 154. Quindi, perché si possa cancellare la gratuità  del sistema sanitario nazionale, modificare la legge elettorale e abrogare l’articolo sul licenziamento senza giusta causa mancano 24 voti. Le sinistre, il Bloco de Esquerda e il Partido Comunista si opporranno sicuramente con tutte le loro forze contro qualsiasi intervento di questo tipo. Quindi, a questo punto, i socialisti giocano un ruolo fondamentale essendo il partito da cui potrebbero arrivare i voti mancanti.
Insomma se la costituzione si può salvare, per il resto sembra difficile per le opposizioni di sinistra riuscire ad arginare un attacco tanto virulento contro i diritti di cittadinanza. La Confederaà§à£o Geral dos Trabalhadores Portugueses (Cgtp) e il Pcp hanno dimostrato in questi mesi di avere grandi capacità  di mobilitazione ma purtroppo mobilitazioni e scioperi sembrano essere oggi sostanzialmente inefficaci. Se le decisioni sono prese da una «mano invisibile» che agisce tra New York (agenzie di rating), Bruxelles (Commissione Europea), Francoforte (Bce) e Berlino (governo Merkel) è molto improbabile che le voci della resistenza a quelle decisioni possano essere ascoltate in luoghi tanto lontani.
Non ci vuole una chiromante per prevedere che le misure proposte dalla troika avranno effetti devastanti da un punto di vista sociale e si dimostreranno inutili da un punto di vista del rilancio economico. Sì perché, parafrasando Emiliano Brancaccio, questa non è una crisi del debito, ma è una crisi dei bassi salari. Si risolve non con politiche neo-liberali, ma neo-keynesiane.
Riassumendo: i portoghesi si sono indebitati fino al collo perché i loro salari erano bassissimi, il reddito pro capite misurato in potere di acquisto è pari a 23 mila dollari, attestandosi a un non lusinghiero quarantesimo posto. Di fatto il credito è stato una sorta di malefico ammortizzatore sociale il cui controllo è completamente sfuggito dalle mani di chi avrebbe dovuto avere funzioni di regolamentazione (banche centrali e governi). L’eccesso di credito ha determinato il sostanziale fallimento del sistema bancario, a questo punto è dovuto intervenire lo stato nazionalizzando le perdite facendo così schizzare alle stelle il debito pubblico caricando sui cittadini il costo di tutta l’operazione.
Paradossalmente però tutte le misure imposte dall’Europa e dall’Fmi vanno nella direzione di ridurre i salari, aumentare il costo delle case, diminuire le spese pubbliche e le garanzie sociali. Nulla è detto e nulla è fatto per rilanciare davvero lo sviluppo, per ridurre il divario tra ricchi e poveri, per garantire più sicurezza sul e del posto di lavoro. La redistribuzione del reddito, misurato con l’indice di Gini (dati Eurostat), pone il Portogallo dietro a paesi come la Romania, la Bulgaria o la Grecia. I tassi di mortalità  sul lavoro sono da guerra civile (dati Ilo): la media è di 6,3 ogni 100 mila abitanti, contro i pur già  considerevoli 4 italiani e 2 tedeschi.
Non ci resta che chiudere con una domanda: perché l’Ue, i suoi dirigenti, i suoi sindacati e i suoi cittadini non riescono ad imporre un nuovo paradigma?


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