Il nostro riformismo

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Brutte nubi si addensano sulla democrazia italiana. I rappresentanti del blocco sociale perdente a Napoli, Milano e soprattutto ai referendum fingono di non aver capito la lezione. La maggioranza parlamentare, sconfitta sonoramente alle urne, si arrocca intorno al Decreto Sviluppo che “passa” largamente, nonostante l’evidente fibrillazione politica di questi giorni. Bossi, che non sembra azzeccare più un colpo, potrebbe aver mollato il ministro dell’Economia, cosa che, per fortuna, dovrebbe mettere in soffitta l’ipotesiincubo ventilata da Ida Dominijanni su questo giornale, ossia di un Tremonti a maggioranza alternativa «tutti tranne Berlusconi» per «fare le riforme» alla greca (cioè dissanguare il popolo) prima del voto. La distorsione tipica di una democrazia rappresentativa che non rappresenta si presenta così in Italia come un caso di scuola. Il governo (ma direi in realtà  la classe politica), quanto mai debole nel paese, si rafforza in Parlamento anche perché l’opposizione non ha alcuna voglia di mantenere alta la pressione. Per questo dobbiamo dire chiaro e forte che ad arroccarsi non è la maggioranza ma il “blocco sociale” sconfitto, fatto di uomini, figli della “fine della storia” che portano avanti un’idea di riforme ormai bocciata dalla maggioranza del paese.

Il “riformismo” dei Draghi, dei Catricalà  e dei Bersani (ma ovviamente la lista è lunga e cito qui solo chi ha più rumorosamente esternato in questi giorni) di cui straparlano pure sovente gli sbracati esponenti della classe politica al governo, altro non è che la promozione ideologica di una politica reazionaria al servizio del più forte (la politica della crescita), di cui Confindustria ed i suoi sindacati gialli si illudono di poter essere i principali beneficiari. Il riformismo che liberalizzando privatizza, che flessibilizzando precarizza, che modernizzando scempia il territorio, è stato bocciato dalla maggioranza assoluta degli italiani al referendum. Si è costituito il 13 giugno un nuovo blocco sociale che genuinamente condivide preoccupazioni di lungo periodo e che sostiene un’idea di riforme radicalmente opposta a quella che ancora inquina il nostro dibattito pubblico ed i suoi stanchi protagonisti.
È un riformismo, quello emerso dai referendum, che vuole ridurre le diseguaglianze, ripensare il rapporto fra pubblico e privato in modo meno sbilanciato a favore di quest’ultimo, affrontare davvero le cause della crisi che ha determinato la fine della “fine della storia”. Questo riformismo nuovo, maggioritario nel paese, gradualistico nel senso di Treves e di Salvemini, ha oggi un obiettivo diverso rispetto all’edificazione del socialismo: il suo obiettivo è contribuire alla salvezza rispetto all’imminente catastrofe ecologica, affrontando finalmente i nodi seri relativi all’organizzazione di una democrazia industriale complessa (seppur semiperiferica come l’Italia), che non può più sostenere il ricatto del complesso finanziario-militare. Questi sono temi e problemi che l’Italia condivide non certo solo con Spagna e Grecia ma con tutto il mondo industrializzato. Il nuovo blocco sociale riformista, che mette al primo posto la riduzione della diseguaglianza, vuole finalmente affrontare questi problemi e non nasconderli sotto il tappeto, passando tempo a cincischiare col folklore di Pontida. 
Per chi si fa e si è fatto interprete di questo blocco sociale durante la campagna referendaria in cui così tante persone hanno potuto finalmente aprirsi e discutere di politica, è assai grave che la sola cosa sensata uscita da Pontida, ossia l’impossibilità  di affrontare la crisi sociale se si continua a spendere denaro per la guerra, sia stata rintuzzata da Napolitano con la solidarietà  piena di tutto il Pd. Uscire dalla dipendenza (tossica) da un modello di sviluppo fondato su guerre del tutto fini a se stesse ( se non direttamente predatorie) non può che essere la priorità  indiscussa del nuovo riformismo uscito dalle urne referendarie. Quella è la strada principale per sanare i conti, tracciando al contempo un grande piano pubblico di cura del territorio, della natura, della qualità  della vita di tutti fondato sulla valorizzazione dei beni comuni e sul recupero di un po’ di etica pubblica.
I partiti, tutti quanti, si facciano una ragione che questo è il messaggio chiaro e forte uscito dalle urne! Un messaggio che certo premia i movimenti ma che adesso deve essere interpretato politicamente con una visione alta, riformista nel senso nuovo del termine capace di dare vera voce e soggettività  politica al nuovo blocco sociale. Invece il Decreto sviluppo contiene l’Agenzia per l’acqua, un’idea bocciata dal popolo sovrano. Il Pd fa eco, riproponendo quella sua bruttissima legge sull’acqua che era stata proposta per pura iattanza all’inizio della raccolta delle firme e che, con il Decreto sviluppo, condivide la filosofia di fondo dello Stato regolatore. Ma l’idea di Stato regolatore che non agisce direttamente nell’economia e che si limita a dettare le regole per la concorrenza fra privati è stata spazzata dal referendum, dopo essere stata indebolita perfino in Europa dal Trattato di Lisbona. Il settore pubblico rafforzato , ristrutturato e democratizzato deve tornare a “fare” e a “saper fare”: questo ha chiesto il popolo dei beni comuni.
Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: il privato e la logica aziendalistica e finanziaria di breve periodo che necessariamente lo pervade non è la soluzione. Molto spesso, sempre nelle ipotesi di monopolio naturale come l’acqua, esso è il vero problema cui oggi tutti insieme dobbiamo far fronte. Il Pd ci dica chiaramente se vuole interpretare questa nuova visione o se resta legato alle lenzuolate bersaniane e agli estremismi della Lanzillotta. E se sta da questa parte, e vuole farsi interprete dell’esito referendario, si batta piuttosto per mettere all’ordine del giorno il disegno di legge riforma dei beni pubblici della Commissione Rodotà , che dà  senso giuridico ai beni comuni e che giace da oltre un anno in Senato con Finocchiaro e Casson primi firmatari. 
A dieci giorni dal referendum il connubio letale fra profitto (sperato) e rendita (certa), che determina il nostro sviluppo insostenibile fondato sulla religione della crescita, seguita a tenere in campo i suoi ventriloqui bipartisan. Si fa finta di niente e si ripete che, dopo il referendum, esiste la possibilità  di scegliere fra pubblico, privato o misto. Finiamola prima che sia troppo tardi! Dopo il referendum c’è una sola via legittima: quella dei beni comuni che sono incompatibili con profitto e rendita. Il popolo sovrano rivuole tanto il rispetto democratico della sua chiara volontà  quanto, nell’ immediato, il 7% che sta pagando sulle sulle bollette idriche che da ormai 10 giorni costituisce un illecito bottino. Gli italiani votando in massa hanno difeso oltre all’acqua anche il referendum e la loro sovranità  diretta. Se non vedranno subito l’esito in bolletta né avranno spiegazioni immediate e credibili su come quei soldi verranno spesi nel loro interesse, sapranno studiare le mosse e riprendersi direttamente quel denaro per spenderlo a favore del futuro di tutti. Poi ci riprenderemo anche la democrazia!


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