Il Manifesto di Giulio

by Editore | 15 Giugno 2011 6:40

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Chiama a raccolta la società  civile, che con la “sberla” di due giorni fa ha dimostrato la sua voglia di esserci e di contare. Fa appello e fa blocco con i corpi intermedi, con le categorie dell’impresa e del lavoro, per dire al premier che è finito «il tempo delle scorciatoie e delle furbate», e che è iniziato «il tempo della serietà , della responsabilità  e dell’interesse generale». Di fronte al forcing arrembante del berlusconismo, il tremontismo risponde buttando la palla in tribuna. Una mossa uguale e contraria. E per molti versi altrettanto disperata.
È un vero e proprio “Manifesto” politico, quello che Tremonti rilancia davanti non ad una semplice platea di artigiani, ma a quella che lui stesso cataloga come «Rete Imprese Italia». Un discorso che parte dalla «riforma fiscale ottimale», fatta di cinque imposte e tre sole aliquote Irpef, articolata in una drastica riduzione delle agevolazioni e in una chirurgica rimodulazione dell’Iva. Un ritorno (colpevolmente tardivo) al progetto rivoluzionario del primo e del secondo Tremonti, quello del Libro Bianco del ‘94 e della delega del 2005. Un approdo che oggi è ancora lontano, e che può essere raggiunto a tappe intermedie a una sola e irrinunciabile condizione: che ad ogni abbattimento d’imposta corrisponda un aritmetico taglio di spesa. Perché il pareggio di bilancio, come sostiene il ministro, non è un’opzione, ma «è un bene nazionale». E la novità  di queste ore, secondo la lettura che ne dava il ministro ieri sera a Bruxelles, parlando con un collega in una pausa dei lavori dell’Ecofin, è che per la prima volta in Italia «c’è un enorme blocco sociale che condivide questo nuovo schema: riforma fiscale e pareggio di bilancio, non l’una senza l’altro».
Difficile dire se esista, e se sia davvero così enorme, il blocco sociale di cui parla Tremonti. Ma è effettivamente il blocco al quale lo stesso Tremonti sta tentando di parlare in queste ultime settimane. Confartigianato e «Rete Imprese Italia», appunto, per dire Confcooperative, Cna, Confagricoltura e Coldiretti. Ma anche e soprattutto Confindustria. E poi, sullo sfondo, i sindacati. Non solo la Uil e la Cisl (nel weekend Tremonti non ha voluto mancare al confronto pubblico con Bonanni a Levico), ma anche la Cgil di Susanna Camusso, con la quale il ministro vuole aprire un tavolo sul precariato. È in questo vasto mondo di forze che Tremonti cerca adesso una sponda, per resistere alla pretesa berlusconiana del “tutto e subito”: cioè delle riforme fiscali a qualunque costo, compreso l’aumento del deficit. Tremonti non ha “divisioni” che lo sostengano in questa “resistenza”, dentro un Pdl piegato ai voleri del capo nonostante la sanzione elettorale subita con le amministrative e il referendum. Per questo tenta di appoggiarsi a un’altra constituency, che è quella sociale. E che presto, secondo la lettura che ne da lo stesso Tremonti, sarà  anche politica.
Il Paese vuole il cambiamento. Il plebiscito contro il Cavaliere sui quattro referendum ha reso esplicita la bocciatura di altrettante leggi di Berlusconi. E allora, è il ragionamento tremontiano, adesso non puoi giustificarla dando la colpa alle mancate riforme del fisco. Per questo il ministro si presenta al nuovo braccio di ferro con il premier riproponendo il suo “metodo”: la riforma fiscale presuppone il pareggio di bilancio, in deficit non puoi farla perché hai firmato un impegno con l’Europa e perché hai un vincolo con i mercati, che ti imporrebbero un drastico aumento dei tassi e quindi un automatico aumento delle tasse. È quello che Tremonti spiegava ancora ieri sera a Bruxelles: «Non è vero che io non voglio fare la riforma fiscale. Io ho dato uno schema: c’è la legge di stabilità  da rispettare, c’è l’obbligo del pareggio di bilancio al 2014, ci sono forme di copertura degli sgravi fiscali da dosare in maniera rigorosissima sulla quantità  dei tagli di spesa che vuoi fare. Non puoi dire “serve ridurre le tasse, arrangiati tu su come trovare i soldi”. Io ti indico tutti i tagli di imposta che sono possibili, tu decidi quali adottare in base a quanto sei disposto a tagliare la spesa pubblica».
La bozza di legge delega è pressochè pronta, la invierà  a Palazzo Chigi nelle prossime ore. Poi «sono loro che devono dire cosa vogliono fare». Ma sapendo bene, stavolta, che c’è una novità  rilevante: un pezzo di Paese, secondo Tremonti ormai largamente maggioritario, condivide il suo impianto: «La riforma fiscale si può fare, ma non certo per esigenze elettorali. Va fatta con equilibrio. Quando le categorie economiche vogliono il pareggio di bilancio, non può essere la politica che lo rifiuta. Per la prima volta, l’Italia che produce e che lavora chiede che politica ed etica camminino insieme. E se la politica insegue il deficit, non è più etica». Questo sarebbe il nuovo “schema”. Resta da capire se è un dato reale, o se è solo una proiezione virtuale del ministro. Ma soprattutto resta da capire se il Cavaliere lo accetta. Anche se, come si sente dire nei corridoi di Via XX Settembre, a questo punto la domanda vera non è «se questo schema non va bene a Berlusconi, ma se Berlusconi non va più bene a questo schema».
Il merito dei provvedimenti chiarirà  se la delega fiscale di Berlusconi è l’ultima “telepromozione” di un imbonitore fallito, oppure la prima riforma di un governo rinato. L’impressione è che non esistano più né lo spazio né il tempo per un rilancio. Gli appuntamenti della prossima settimana sono decisivi. La verifica sul governo il 22 giugno (dove si giocherà  l’ennesima roulette russa parlamentare). Il Consiglio Europeo il 23 (dove cadrà  l’ultimo bluff del Cavaliere, illuso di convincere Sarkozy a chiedere un allentamento dei vincoli della Legge di Stabilità ). In mezzo, domenica prossima, il ritrovo di Pontida, dove la Lega celebrerà  il suo rito di autocoscienza dopo le ultime due rovinose disfatte elettorali subite al Nord. Tremonti aspetta e non arretra. La Lega non lo preoccupa. È sicuro che il suo asse con Bossi è più saldo che mai, e che sarà  una Pontida «sorprendente». E soprattutto è convinto che nel patto che lui propone ai ceti produttivi anche il Carroccio ci sia dentro fino in fondo, perché quello è il suo universo identitario e perché lì è il suo radicamento sociale. Non una lobby rivendicativa, ma molto di più. «Non l’etica delle intenzioni, che è individuale, ma l’etica della responsabilità , che è collettiva». Questa è l’estrema, complicatissima scommessa tremontiana, per reggere l’urto di Berlusconi e aprire un orizzonte sul «dopo»: una rete di consenso sociale che nasce dal basso, ma che sembra preludere a svolte di tipo politico. Cioè, di fatto, a un altro governo.
Tremonti ministro dell’Economia sta cercando di fare oggi ciò che D’Alema presidente del Consiglio cercò di fare nel ‘99 con il Patto di Natale: sostituire un’ingestibile maggioranza politico-parlamentare (perduta dopo la fine dell’Ulivo e l’ingresso dei cossighiani “straccioni di Valmy”) con un’infrangibile base politico-sociale (costruita intorno alle categorie rappresentative dell’impresa e del lavoro). Con una differenza sostanziale. D’Alema azzardò l’impossibile con l’obiettivo di salvare il suo governo (che infatti non resse alla batosta successiva delle regionali). Tremonti tenta il possibile con l’obiettivo di andare oltre il governo Berlusconi, e di precostituire una piattaforma sociale, culturale e programmatica per la «maggioranza che verrà ». È il “Predellino di Giulio”, appunto. Una missione magari più nobile, ma non meno temeraria. Il duello tra Berlusconi e Tremonti, in fondo, è un conflitto tra due debolezze: una forza politica che non c’è più, contro una spinta sociale che non c’è ancora.

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