by Editore | 3 Giugno 2011 6:09
Ricordate il 1986. Mai avremmo vinto il referendum contro l’atomo non fosse stato per il divieto di consumare lattuga e latte irradiati dalla nube di Cernobyl. Chi ha l’età per ricordare ritiene che gli effetti di quella nube radioattiva siano scolpiti indelebili nella nostra memoria. Ma così non è. Anche chi allora aveva 10-15 anni non li rammenta più, non sa nemmeno che tutto ciò avvenne. Immaginiamo cosa sa chi era infante o doveva ancora nascere. Cioè: buona parte di chi voterà domenica 12 non ricorda che questo è il nucleare: che un disastro a 2.000 km di distanza può privarti perfino dell’innocente insalata; e che fu proprio il cortocircuito tra una verdura e un reattore a spingere alle urne milioni di italiani che altrimenti sarebbero stati conniventi, o ignari, o distratti.
C’è solo un modo per ricreare nel 2011 lo spirito del 1986. Ed è di parlare della Cernobyl dei nostri giorni. È solo a causa di Fukushima – non per particolare lungimiranza – che la Germania ha annunciato domenica la fine del nucleare entro il 2022.
Poiché è sul quorum che si gioca ogni referendum, per spingere a votare milioni di indifferenti Fukushima bisogna evocarla. Agli elettori va chiesto: se è potuto succedere nell’efficientissimo Giappone, cosa potrebbe avvenire nella nostra peciona Italia? Alla mala sanità , come alla mala spazzatura, il paese può sopravvivere (più male che bene) anche se dei cittadini muoiono. Ma al mal nucleare? Immaginiamo una centrale vicino L’Aquila al momento del terremoto, a meno di 100 km in linea d’aria da Roma. Pensiamo a cosa farebbe un sisma nel Friuli di una Padania nucleare.
Che i nostri non martellino giorno e notte con Fukushima, spinge a incrociare le dita, per scaramanzia. Ma il migliore scongiuro va depositato nell’urna.
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