IBM

by Editore | 17 Giugno 2011 7:59

Loading

NEW YORK – Il regista Stanley Kubrick aveva visto giusto, nel futuro – e ben oltre l’anno 2001 della sua “Odissea nello spazio” – ci sarà  sempre un Ibm a rappresentare il progresso tecnologico. Le mode vanno e vengono: guardate Pandora, la radio online che ha fatto scalpore mercoledì alla sua prima quotazione in Borsa. Dopo un balzo iniziale del 62%, già  al secondo giorno il titolo era sceso sotto il prezzo di collocamento. Forse un segnale che l’ultima “bolla di Internet” trainata da Facebook, Twitter, Linkedin volge già  al termine? Dall’alto del suo centesimo compleanno, celebrato proprio ieri, l’Ibm può guardare con distacco alle febbri speculative della Silicon Valley, osservare con ironia il “capitalismo dei ragazzini” che domina l’attenzione dei media e più volte ha decretato il declino dei dinosauri come Big Blue. L’Ibm si situa al polo opposto di quel modello: anche geograficamente, ostinandosi a rimanere ad Armonk, nello Stato di New York, ben lontano dalla Silicon Valley dove germinano tutte le rivoluzioni tecnologiche da mezzo secolo in qua. Simbolo per antonomasia di un establishment capitalistico, il nome di Ibm non evoca il “glamour” di aziende fondate da ventenni o trentenni che promettono di trasformare il mondo (e a volte ci riescono). Però, però: chi l’avrebbe mai detto, oggi Ibm con i suoi 197 miliardi di dollari di capitalizzazione tallona Microsoft (200 miliardi) in Borsa, e stacca nettamente Google (162 miliardi). E’ la quinta azienda americana per il suo valore azionario. Ed è l’unica, nel ristretto club delle “centenarie” ad appartenere al settore hi-tech dell’informatica.
Un risultato simile non si ottiene per caso: del capitalismo schumpeteriano – quel motore della distruzione creatrice che ha nella Silicon Valley il suo epicentro culturale – Ibm ha imparato almeno una lezione: bisogna vivere come Mao Zedong in uno stato di “rivoluzione permanente”. E in effetti la capacità  di Ibm di cambiare pelle, trasformarsi, reinventarsi, adottare nuovi mestieri e nuove vocazioni, è il segreto della sua stupefacente longevità . A ripercorrere le sue mutazioni genetiche, si mette insieme un “documentario storico” sul capitalismo industriale degli Stati Uniti, e sulle trasfomazioni sociali che lo hanno accompagnato. Nel 1911 l’embrione dell’Ibm nasce con il nome di Computer Tabulating and Recording Company, produce orologi-sveglia, orologerie per usi industriali, bilance, e le prime “schede perforate” per calcolatrici meccaniche: una premonizione. E’ grazie a queste “schede perforate” che Ibm nel 1923 viene associata a un’impresa colossale, il primo vero censimento demografico su scala federale. Nel 1924 ribattezza se stessa International Business Machines e otto anni dopo è pronta all’appuntamento col New Deal di Franklin Delano Roosevelt: le calcolatrici Ibm sono indispensabili per gestire la Social Security, il primo sistema previdenziale moderno che viene lanciato come uno degli strumenti anti-depressione.
Nel dopoguerra, il 1956 è l’anno del primo hard-disk, Ibm si lancia alla conquista del futuro creando il supporto magnetico per immagazzinare dati. E’ il momento aureo che apre il suo predominio nell’industria dei calcolatori, i padri dei computer. Ibm è leader anche in quel settore intermedio che fa da ponte verso il pc, le macchine da scrivere elettriche nel 1961. Esattamente dieci anni dopo, lancia il floppy disk. Altri dieci anni, siamo nel 1981 ed ecco inaugurata con l’Ibm Personal Computer la rivoluzione dell’èra digitale. Fin qui tutto conferma la visione profetica di Kubrick, che vede in un supercomputer Ibm (“Hal”, le tre lettere dell’alfabeto precedenti l’acronimo di Big Blue) il protagonista di una rivolta delle macchine contro la società  umana. Ma proprio in quella fase si situa uno dei più gravi errori strategici del gruppo, una miopìa che verrà  rinfacciata a lungo all’Ibm: è quando l’azienda troppo sicura di sé lascia che un certo Bill Gates s’impadronisca del mestiere del software, considerato “subalterno”. In realtà  il software domina tutta la fase successiva dell’èra digitale, mentre la produzione delle “macchine” diventa roba da paesi emergenti. L’appendice finale di quell’errore è la vendita ai cinesi di Lenovo di tutta la divisione personal computer dell’Ibm, una resa che avviene alla fine del 2004. Ma gli epitaffi sono prematuri. Lo slogan “Think” che l’Ibm adottò fin dai tempi del suo patriarca storico Thomas Watson, pungola successive generazioni di top manager a ringiovanire continuamente il gruppo: che si trasforma in una società  di servizi, leader mondiale nel fornire “chiavi in mano” le soluzioni integrate per tutta la gestione informatica delle imprese. Quasi a far dimenticare l’errore fatto con Bill Gates, in altri campi l’Ibm è visionaria: è una delle prime a saltare sul carro di Internet, o a scommettere sul “software aperto” e libertario di Linux, l’open source anti-Microsoft. A cent’anni, l’Ibm si è offerta il lusso di vendicare la sconfitta di Hal in “Odissea nello spazio”: il suo supercomputer battezzato Watson come il fondatore, ha stracciato i concorrenti umani nel quiz televisivo “Jeopardy”. Watson, assicurano gli ingegneri che l’hanno creato, non ha più nulla da invidiare all’uomo: finalmente padroneggia anche l’ironia.

 

Post Views: 185

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2011/06/ibm/