by Sergio Segio | 12 Giugno 2011 7:45
Dove relatori venuti da tutte le sponde, protagoniste delle rivolte, blogger, attivisti, documentaristi, registi hanno raccontato le rivolte dall’interno cercando di riflettere sul protagonismo delle donne, sul ruolo dei nuovi media, sulle domande fondamentali poste dalle rivolte arabe: il contenuto della democrazia, lo scontro tra laicità e fondamentalismo, la cittadinanza in un mondo globalizzato.
Bisogna però guardare anche alle ragioni strutturali delle rivolte arabe: sono un momento di modernizzazione capitalista? Il punto di vista capovolto di Al Idrisi è una buona introduzione: oggi nelle carte geografiche la convenzione mette sopra il nord e sotto il sud, ma «nel Mediterraneo si vanno disegnando circuiti di investimenti sud-sud», dice Paolini, mostrando un’altra mappa, attualissima: gli investimenti dei paesi del Golfo in porti, infrastrutture commerciali e petrolifere dal canale di Suez all’Algeria e il Marocco, in una corsa all’egemonia sul Mediterraneo visto come via di passaggio est-ovest. Poi quella della struttura demografica («molti analisti oggi mettono la percentuale di popolazione tra i 18 e 30 anni tra i fattori di «rischio paese»).
Guarda alle rivolte arabe nel contesto geo-politico Gian Paolo Calchi Novati (esperto di colonialismo e decolonizzazione, professore di storia e istituzioni dei paesi afro-asiatici all’università di Urbino). Alla fine della Guerra fredda, la posta in gioco del «nuovo ordine mondiale» sono le risorse, gli asset strategici, dice, parla di rivolte dagli esiti ancora incerti. Descrive l’intervento occidentale in Libia come «la Suez del ‘2000», attraverso cui l’Europa (anzi, l’asse franco-britannico) vuole tornare in gioco nel potere mondiale. Lucia Annunziata (giornalista, ex direttrice del Tg3, coordinatrice del comitato scientifico della rivista Oil) parla di «grande confusione» nella politica estera degli Stati uniti: e sottolinea come le rivolte arabe, con la loro richiesta di democrazia, il protagonismo delle donne e dei giovani, di internet hanno spiazzato un’amministrazione Obama che stava cercando di rimettere insieme i cocci ereditati dalla «guerra permanente» del suo predecessore.
Samir Amin torna a restringere il campo per mettere meglio a fuoco la rivolta egiziana – e i problemi che solleva. Economista egiziano, conosciuto internazionalmente come teorico dello sviluppo ineguale, oggi dirige il Forum du Tiers Monde a Dakar in Senegal, da cui è intervenuto in videoconferenza. In Egitto, dice, «protagonisti della rivolta sono stati in primo luogo giovani che si sono ripoliticizzati», piccola borghesia urbana, la classe operaia protagonista di frequenti scioperi a partire dal 2007, i piccoli contadini che si sono visti espropriare le terre (la «contro-riforma agraria»). Vogliono «la democratizzazione della società , che non si esaurisce solo in elezioni un po’ più trasparenti; una politica economica e sociale più equa, e infine una politica nazionale non asservita all’alleato americano, soprattutto sulla questione dell’espansionismo di Israele». Parla di una lotta politica aperta, e del «blocco reazionario» che lavora contro la democratizzazione: in cui include, insieme all’alta borghesia reazionaria legata al vecchio partito quasi-unico di Mubarak, o agli agrari, anche i Fratelli musulmani «partito a torto considerato di opposizione: è reazionario sotto il profilo economico e sociale, è stato tollerato e sostenuto dal vecchio regime». Attenzione alle trappole, conclude: «Bollare di islamofobia ogni critica all’islam politico è come accusare di antisemitismo ogni critica alla politica di Israele».
I giovani «ripoliticizzati» di Samir Amin inducono qualche ottimismo in Zvi Schuldiner, docente al Sapir College in Israele, militante pacifista e della sinistra israeliana ed editorialista del manifesto. Dagli anni ’90 «siamo stati dominati dalla politica della paura: paura degli arabi che ci attaccano, che invadono l’Europa. In nome della lotta al terrore, cioè della paura, è stato giustificato il terrorismo di stato ed è stata cancellata la questione sociale».
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