Fuga razionale dall’atomo

by Editore | 11 Giugno 2011 6:18

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“Avevo dei dubbi, ma Fukushima mi ha convinto del valore dell’energia atomica”, afferma provocatoriamente George Monbiot. “Finora non ci sono morti, nonostante i reattori nucleari in Giappone siano stati sottoposti al più duro test possibile, ossia uno dei peggiori terremoti e uno tsunami da esso provocato. Perciò io amo l’energia atomica”. Tuttavia, sarebbe del tutto sbagliato ritenere che la Germania con la sua decisione politica di compiere una svolta energetica si sia congedata dalla concezione europea della modernità  per tornare alle radici oscure e boschive della sua storia culturale. Qui non ha il sopravvento la proverbiale irrazionalità  tedesca, ma la fiducia sulla capacità  della modernità  nell’affrontare i rischi che essa deve addebitare a sé stessa.

I sostenitori dell’energia atomica basano il loro giudizio su un concetto di rischio immune dall’esperienza, che scambia irriflessivamente l’epoca della protoindustrializzazione con l’era atomica. Questa razionalità  del rischio tiene conto dell’eventualità  che si verifichi la peggiore delle situazioni possibili e pone la necessità  di cautelarsi da tale eventualità . Chi dopo Chernobyl e Fukushima continua ad affermare che le centrali atomiche francesi, britanniche, americane, cinesi, sono sicure, nega che i dati di fatto obbligano a trarre la conclusione esattamente opposta, e che una sola cosa è certa: il Gau (acronimo di grà¶àŸter anzunehmender Unfall, “massimo incidente ipotizzabile” – n. d. t.). Chi afferma che nemmeno gli impianti tecnologicamente più avanzati per la produzione di energia garantiscono una totale assenza di rischi (e questo è in sé corretto), ma ne conclude che i rischi di un uso pulito del carbone, delle biomasse, dell’energia idrica, del vento, del sole e dell’energia atomica sono sì diversi ma comparabili, nega l’evidenza: infatti, sappiamo benissimo cosa accade quando fonde il nocciolo di una centrale nucleare. Sappiamo per quanto tempo continueranno ed essere emesse radiazioni, cosa fanno alle persone e all’ambiente il cesio e lo iodio e quante generazioni dovrebbero soffrire se si verificasse il caso peggiore. E sappiamo che queste dimensioni sconfinate delle conseguenze temporali, spaziali e sociali non sono riferibili alle energie alternative e rigenerative.
E il problema dell’assicurazione? Stranamente, nell’impero della libera economia di mercato, e dunque anche negli Stati Uniti, l’energia atomica era la prima industria del socialismo di Stato. Perlomeno per quanto riguarda i costi degli errori. I profitti finiscono in tasche private, mentre i rischi vengono socializzati, cioè addossati alle generazioni future e ai contribuenti. Se però le imprese impegnate nella produzione di energia nucleare fossero obbligate per legge a stipulare un’assicurazione contro i disastri atomici, sarebbe la fine della favola del nucleare che dà  energia a buon mercato.
Nessun’altra nazione ha intrapreso una fuoriuscita rapida come quella della Germania. Non sarà  un eccesso di panico? No, non si tratta di “paura tedesca”. It’s the economy, stupid! L’energia nucleare alla lunga è più cara, mentre quella rinnovabile è più a buon mercato. Soprattutto, però, occorre ricordare che chi si lascia aperte tutte quante le opzioni non investe. In questo caso, la Germania non avrebbe compiuto la svolta energetica. In altri termini, è una paura furba quella che spinge i tedeschi. Essi fiutano le opportunità  economiche dei mercati mondiali del futuro. “Svolta energetica” in tedesco si compita “J-O-B-S”. Un cinico potrebbe dire: “Lasciate che gli altri vadano fieri della loro mancanza di paura. Si ritroveranno con la stagnazione tecnologica e con un mucchio di investimenti sbagliati”. I fautori dell’energia atomica si precludono la via d’accesso ai mercati del futuro, dal momento che non investono nell’alternativa dei prodotti a risparmio energetico e nelle energie rinnovabili.
La situazione all’inizio del XXI secolo è analoga ad altre fratture epocali nell’approvvigionamento di energia. Immaginiamo che 250 anni fa, all’inizio della prima rivoluzione industriale, gli uomini avessero gettato al vento l’opportunità  di investire nel carbone e nell’acciaio, nelle macchine a vapore, nei telai e più tardi nelle ferrovie. Oppure che cinquant’anni fa avessero liquidato come “ansia americana” il fatto che di colpo gli Americani si erano messi a investire in microprocessori, computer, internet e nei nuovi mercati dischiusi da queste nuove tecnologie. Oggi abbiamo a che fare con un simile momento storico. Chi utilizzasse anche solo una parte del deserto per l’energia solare potrebbe soddisfare il fabbisogno energetico dell’intera civiltà . Alcuni dei Paesi più poveri del mondo sono “solarmente ricchi”.
L’energia atomica è gerarchica, mentre l’energia solare è democratica. L’energia nucleare è per sua stessa natura antidemocratica. Vale l’esatto contrario per le energie rinnovabili del sole, del vento, ecc. Chi riceve la sua energia da una centrale atomica non viene più rifornito se non paga il conto. Questo non può accadere a chi riceve la sua energia dagli impianti fotovoltaici installati a casa propria. L’energia solare rende indipendenti le persone. Chiaramente, questa libertà  dell’energia solare mette in discussione il monopolio di potere dell’energia nucleare. Perché proprio gli americani, gli inglesi e i francesi, che danno tanto valore alla libertà , sono ciechi dinanzi alle conseguenze emancipatrici della svolta energetica?
Ovunque viene annunciata e deplorata la fine della politica. Paradossalmente, la percezione culturale del pericolo può preludere alla fine della fine della politica. Per comprenderlo, si potrebbe recuperare una considerazione esposta già  nel 1927 da John Dewey, in The Public and its Problems, dove il filosofo americano sostiene che un’opinione pubblica estesa al di là  delle frontiere e capace di dar vita ad una comunità  nasce non in base a decisioni politiche, ma in forza di decisioni che nella percezione culturale dei cittadini possono comportare conseguenze problematiche sul piano esistenziale. Così un rischio pubblicamente percepito rende necessaria la comunicazione tra coloro che altrimenti non avrebbero nulla a che fare gli uni con gli altri. Essa è imposta dai vincoli e dai costi che sconsigliano di esporsi a quel rischio – e che spesso hanno dalla loro parte il diritto vigente. In altri termini, proprio ciò che molti credono di dover stigmatizzare come reazione esagerata e isterica al “rischio” dell’energia atomica è un passo di vitale importanza in direzione di una svolta energetica che equivale anche a una svolta democratica.
Al cospetto della catastrofe nucleare gli Stati e i movimenti della società  civile vengono potenziati, poiché fanno emergere nuove fonti di legittimazione e nuove opzioni d’azione. Nello stesso tempo l’industria atomica viene depotenziata, poiché le conseguenze delle decisioni di investimento hanno messo in gioco la vita di tutti. Viceversa, una coalizione di nuovo tipo tra lo Stato e i movimenti della società  civile, come quella che possiamo osservare attualmente in Germania, ottiene la sua opportunità  storica. Il cambio di politica è opportuno anche sotto il profilo dei rapporti di potere. Solo un governo conservatore e attento alle esigenze dell’economia può realizzare una simile svolta energetica, proprio perché ha nelle sue file gli avversari più decisi di questa prospettiva.
Chi critica il ritiro della Germania dall’energia atomica rischia di incorrere nell’errore del bruco. Il bruco si trova nello stadio dell’uscita dalla crisalide, ma lamenta la scomparsa del bozzolo poiché non intuisce la farfalla delle energie rinnovabili in cui sta per trasformarsi.
Traduzione di Carlo Sandrelli

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