by Editore | 19 Giugno 2011 5:28
Ricorda quella volta a Pechino, nel 1985, ormai non più cancelliere, quando Deng Xiaoping non si fece spiazzare dalla sua ironia, tagliente come il vento che soffia ad Amburgo: «Mr. Deng — gli aveva detto, forte della lunga confidenza che li legava — voi cinesi non siete veramente onesti. Vi definite comunisti, ma agite da confuciani» .
E quello, senza batter ciglio ancorché Confucio fosse ancora anatema in Cina, gli aveva risposto: «E allora?» . «Deng è stato un grande uomo» , commenta Helmut Schmidt. E ritrova nella memoria anche il suo valzer da Bundeskanzler con Grace Kelly, che aveva conosciuto negli anni Cinquanta a Los Angeles e che ora si chiamava Gracia Patricia, principessa di Monaco: «Non feci una gran figura. Avevo già una certa età , il valzer era un po’ troppo. Ma lei, anche se non più giovane, aveva un gran temperamento» . Non è difficile trovare l’ufficio di Helmut Schmidt al sesto piano della redazione di «Die Zeit» . Già nel corridoio, a molti metri di distanza, una nuvola odorosa di tabacco comincia ad addensarsi. A venirmi incontro, sigaretta in bocca, è Rosemarie Niemeier, sua segretaria da sempre e anche lei incallita fumatrice. Nulla però a che vedere con l’ex cancelliere socialdemocratico, che mi accoglie sulla sedia a rotelle alla quale lo costringono i suoi 92 anni. Sta fumando una delle amate Reyno al mentolo. Al centro della scrivania ce n’è una gran quantità , allineate in una scatola in legno. Alla fine delle due ore in cui staremo insieme, le avrà fumate tutte e vi svuoterà dentro un altro pacchetto. Tra una sigaretta e l’altra, Schmidt non trascurerà di sniffare una presa di tabacco da fiuto Poeschl, l’introvabile Gletscher Prise. «Deve parlare lentamente, sento solo dal lato sinistro. Non forte, ma lentamente» , mi avverte. Quando gli dico che voglio cominciare dall’Europa, dalla sua crisi, dalle difficoltà dell’euro, fa una smorfia come se se l’aspettasse. E gioca d’anticipo: «Piccola correzione: l’euro non attraversa affatto tempi duri. Da quando è diventato moneta fisica, il suo potere d’acquisto è stato molto più stabile del dollaro o del renminbi cinese. Perfino al confronto con gli ultimi dieci anni di vita del marco tedesco, l’euro nel suo primo decennio è stato più stabile. Ripeto: non c’è una crisi dell’euro, è tutto nonsense sparso nel mondo da un piccolo gruppo di giornalisti finanziari inglesi. L’euro non è in pericolo» . Provo a obiettare che la Grecia rischia di dover uscire dalla moneta unica, con conseguenze imprevedibili: «Mi chiedo come farebbero. Bisogna stampare una nuova moneta e ci vuole molto. Nel frattempo, prima che la nuova divisa appaia sul mercato, sarà già stata svalutata quattro o cinque volte. Tecnicamente è difficilissimo, molto più facile per un Paese dichiarare bancarotta e rimanere nell’euro. Certo, sarebbe una tragedia per il Paese, ci sarebbero alcune conseguenze psicologiche sul tasso di cambio. Ma la moneta non è in discussione» . La crisi d’Europa ha radici lontane. Comincia vent’anni fa dagli errori di Maastricht: troppi invitati al tavolo dei Dodici, senza cambiare la regola dell’unanimità , precetto per la paralisi. Prosegue con correzioni di rotta velleitarie, come la Costituzione naufragata sugli scogli olandesi e francesi. E il Trattato di Lisbona, «un testo illeggibile, incomprensibile e impraticabile» . Al resto hanno pensato i cambiamenti radicali avvenuti sulla scena internazionale: «Il grande nemico sovietico non c’è più, è scomparsa una delle ragioni decisive dietro la creazione delle istituzioni europee. In più la globalizzazione dell’economia e le crisi finanziarie mondiali che ne sono conseguite hanno posto sfide che le istituzioni europee si sono dimostrate insufficienti ad affrontare» . Ma a Helmut Schmidt preme dire un’altra cosa: «Una della cau- se principali della paralisi europea è l’attuale mancanza di leader politici in grado di capire cosa sia necessario e pronti a farlo. Non ce n’è a Berlino, a Parigi, a Roma o in nessun altro posto» . C’è un altro argomento, azzardo: venuto meno il collante della guerra e delle sue tragiche memorie, questa Europa ha fatto il suo tempo. Ma qui Schmidt ha uno scatto: «È vero, ma non bisogna esagerare con il pessimismo. Il futuro immediato non è promettente. Ci vorrà un periodo compreso tra 15 e 25 anni perché un gruppo di Paesi e parlamenti capisca che è nel loro assoluto interesse nazionale mantenere l’integrazione europea. Solo allora ci saranno veri tentativi per una cooperazione molto più stretta. Dopotutto, è da mille anni che i nostri governi prendono decisioni sulla base dell’interesse nazionale, solo negli ultimi decenni abbiamo provato a cambiare. Un periodo brevissimo. Non c’è ragione di disperare. È una cosa nuova, non è mai successo in nessun tempo e in nessun luogo che un grande numero di nazioni diverse per lingua, idee, storia e interpretazioni della loro storia, visto che ognuna di loro ricorda soprattutto i torti subiti dal vicino, provi a costruire qualcosa di nuovo insieme. Ci vuole tempo. Alcuni sono stati troppo idealisti all’inizio, lasciandoci solo grandi discorsi» . Occorreranno però nuove ragioni. Helmut Schmidt ne è cosciente e indica «i grandi cambiamenti nella demografia e nel prodotto lordo nel mondo» . Cento anni fa gli europei erano il 20%della popolazione mondiale. Nel 2019 conteranno meno del 5%. Lo stesso sta accadendo alla parte europea nella ricchezza mondiale, che negli ultimi vent’anni è scesa dal 35%al 26%: «Presi da soli i Paesi europei stanno diventando sempre più marginali. A metà del secolo la Cina sarà la più grande economia del mondo. L’India seguirà rapidamente, poi toccherà al Brasile. Se l’Europa continuerà così rimarrà ai margini, priva d’influenza, le grandi decisioni verranno prese dagli altri. Finora, né la Merkel, né Sarkozy, né tantomeno Berlusconi hanno capito questo scenario. Speriamo che i loro successori riescano a spiegarlo alle opinioni pubbliche e queste finalmente capiscano che solo insieme esiste una speranza di tener testa a sovrastanti forze demografiche, economiche e tecnologiche» . Contesto all’ex cancelliere che stia parlando di una comunità d’interessi, non più di una comunità di destini. «Non ho mai parlato di destini» , dice puntandomi con gli occhi, mentre tira una presa di Gletscher col naso appoggiato sul dorso della mano. «Lei no, ma i padri dell’Europa sì» . «Non è così» , rimanda deciso. «Adenauer non lo ha mai fatto, Jean Monnet neppure. Ripeto, c’erano alcuni idealisti. Ma gli interessi erano tutto: la minaccia sovietica, il carbone, l’acciaio» . Un quarto di secolo è un lasso di tempo sufficientemente lungo per commettere nuovi errori. Helmut Schmidt ne è consapevole e avverte che uno di questi si chiama Turchia: «Non avrei mai invitato Ankara a un negoziato di adesione all’Ue. A differenza delle società dell’Europa continentale, quella turca continua a crescere: entro la fine del secolo ci saranno più di 100 milioni di turchi, se li facciamo cittadini dell’Unione, dando a quel Paese la possibilità di esportare la popolazione in eccesso verso l’Europa centrale e settentrionale, ci saranno difficoltà enormi. Nessuna società europea è pronta a integrare un grande numero di musulmani. Quanto all’argomento principale in favore dell’ingresso della Turchia, la sua funzione di ponte tra islam e Occidente, è sbagliato e sopravvalutato. Non c’è nessuna vera amicizia tra turchi e arabi, che non hanno un bel ricordo dei sultani a Costantinopoli» . Schmidt fa lunghe pause e tira grandi boccate prima di rispondere. Il suo respiro a volte si fa pesante. Sorride e si schermisce quando gli ricordo una delle sue frasi più celebri: «I politici che hanno le visioni, dovrebbero farsi visitare da un medico» . Sembra l’elogio incondizionato del pragmatismo, nemico dei principi astratti: «Non è così. Un leader politico deve avere principi morali, filosofici, etici, di interesse nazionale. Ma per applicarli concretamente dev’essere pragmatico. Chi prova a tramutare immediatamente in realtà la sua visione ideale, è condannato a fallire. Mao è un buon esempio: il suo grande balzo in avanti fece morire di fame almeno venti milioni di cinesi. I principi devono essere una roccia, ma la politica quotidiana è pragmatica» . Il pensiero va al dicembre 1979, alla doppia decisione della Nato di installare gli euromissili e aprire contemporaneamente negoziati per il disarmo con Mosca. Fu il cancelliere Schmidt a provocarla, contro la maggioranza pacifista del suo partito: «Un buon esempio. Un principio era quello di mantenere la pace anche a dispetto del sovrastante potere militare sovietico. Un secondo era quello di raggiungere un equilibrio delle forze. La doppia decisione fu puro pragmatismo, installare e negoziare. E funzionò molto bene. Ma non fu facile convincere il piccolo Jimmy Carter ad accettarla. Aveva sposato la posizione del suo consigliere Brzezinski che l’America fosse forte abbastanza, data la sua capacità di rispondere con un secondo colpo, da scoraggiare ogni tentazione sovietica di attaccare per prima. Io non credevo all’efficacia di questo deterrente. I russi avevano il dominio nei missili a medio raggio, avrebbero potuto concentrarsi su uno solo dei Paesi Nato, chi ci assicurava che i dirigenti americani sarebbero stati poi pronti a rischiare, come si diceva, Detroit per Dresda? E il crollo dell’Urss era lontano» . Ci abbiamo girato intorno, ma alla fine è lì che approdiamo. Helmut Schmidt è stanco. Ho già contato trenta sigarette. Non è la normalità per un novantaduenne. Ma la normalità che ci interessa di più è quella vera o presunta della Germania: «Cosa vuol dire normale? Guardando indietro agli ultimi 1200 anni, diciamo da Carlo Magno, c’è sempre stato qualcosa di anormale per i tedeschi, circondati da tanti popoli confinanti o quasi: polacchi, cechi, austriaci, francesi, olandesi, svizzeri, danesi, russi, svedesi. Trovandosi al centro di questo piccolo continente, quando si sentivano forti hanno ceduto alla tentazione di scagliarsi contro la periferia: Hitler per tutti. D’altra parte, quando erano deboli, c’è stata la pressione della periferia verso il centro, vedi Napoleone, Stalin, i sultani che arrivarono due volte alle porte di Vienna. Forse è questa la ragione più importante, per cui nel corso della storia la Germania ha vissuto guerre devastanti. Se si capisce questa anormalità geo-strategica, si capiscono i fantasmi» . Ma Schmidt non sa se i fantasmi siano stati sconfitti per sempre. Ricorda che sono passati quasi 2500 anni da quando Nabucodonosor deportò gli ebrei da Gerusalemme a Babilonia. Ancora oggi, anche grazie anche al Nabucco di Verdi, la coscienza di quell’evento disastroso per gli ebrei è viva e presente. «Penso che l’Olocausto perpetrato sotto Hitler contro gli ebrei sarà ricordato almeno tanto a lungo. E se è così, ci vorranno secoli prima che la Germania diventi un Paese normale. Io vedo alcune vecchie tentazioni riemergere: guardiamo per esempio a quello che fa la signora Merkel sull’aiuto alla Grecia o sull’uscita dal nucleare in dieci anni, decisa senza alcun riguardo per le conseguenze che avrà sui vicini. Non è una violazione della legge internazionale, ma si è alienata parecchi in Europa. D’altra parte lei è cresciuta sotto il comunismo e la sua visione del mondo è limitata, forse anche più limitata di quella di Berlusconi» . E così siamo tornati alla leadership che non c’è. Schmidt ne ha conosciuti tanti dei grandi del secolo breve. Ma pochi hanno lasciato in lui impronte profonde come Anwar Sadat, che mise la sua vita sulla bilancia della pace. O come il suo amico Deng Xiaoping, appunto, che «non solo riuscì, grazie alla sua autorità personale, a correggere alcuni dei più gravi errori di Mao, ma seppe anche rianimare la Cina dopo un secolo e mezzo di decadenza, restituendole dinamismo e vitalità » . Gli ricordo che il prezzo fu altissimo, i massacri di Tienanmen. Schmidt annuisce, ma ha una lettura tutta sua degli avvenimenti: «Successe dopo settimane di dimostrazioni a Pechino, per le quali lo stesso governo aveva provveduto al trasporto dei partecipanti. Per la prima volta il leader dell’Unione Sovietica visitò la Cina. A causa delle dimostrazioni fu costretto a entrare nella Casa del Popolo dalla porta posteriore. Fu umiliante per i cinesi. Quando Gorbaciov volò a Mosca, dettò la frase: “La dirigenza cinese sta perdendo il controllo della situazione”. Una cosa che i cinesi non avrebbero mai potuto consentire. Tienanmen fu una terribile tragedia, ma se paragonata alle tragedie provocate da Mao, va ridimensionata» .
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