by Editore | 3 Giugno 2011 6:47
CHICAGO – Gli ombrelloni di Oak Street Beach sono un miraggio dietro il curvone dell’autostrada che costeggia il lungolago, incastonando di asfalto la città del vento. Sembra incredibile: l’ombra del «grattacielo più alto dell’emisfero occidentale» – come recita orgogliosa la scritta intermittente nell’ascensore della Willis Tower, 103 piani in 61 secondi netti – si allunga quasi fin qui. Una spiaggia nel cuore della città ? La metropoli che declina sulla sabbia è un sogno che neppure il più ottimista dei futuristi avrebbe immaginato. Però questa mica per caso è la terra che ha regalato all’America il primo presidente nero: sempre un passo avanti al resto. E così Chicago si prepara all’ultimo stadio della sua evoluzione di Ecopolis.La parola magica si chiama «Adaptation»: che è un modo positivo di guardare, nella città più ecologica degli Usa, al peggio che la aspetta.
Perché Chicago rischia di trasformarsi in Baton Rouge. Da capitale del Nord a bastione del Sud. La città del vento strangolata dal caldo: e dal riscaldamento globale.
È una corsa contro il tempo: tra mezzo secolo potrebbe essere già troppo tardi. Ma oggi l’uomo che sta coordinando la gara, Aaron N.Durnbaugh, deve correre all’ospedale. Un altro tipo di «adaptation»: «Mia moglie sta partorendo». Aaron sorride da dietro agli occhialini: fa l’assessore – è il numero due dell’ambiente – ma sembra un giovane intellettuale e si schermisce di fronte agli elogi che sull’amministrazione sono piovuti perfino dal «New York Times». «Ogni città si adatta per definizione, no? La trasformazione non finisce mai. Adattamento e conservazione: non succede così anche da voi? Come ha fatto a sopravvivere fin qui, per esempio, Milano?». Vorresti lasciar perdere. Eppure anche Larry Merritt, l’uomo-media del dipartimento, dice che fu proprio dopo un viaggio in Europa, in Germania però, che il sindaco Richard M. Daley tornò con l’idea di ridipingere di verde la città . È stato lui a redigere quel piano ambizioso che prevede entro il 2020 la riduzione di un quarto dell’anidride carbonica – l’80 per cento entro il 2050. E che ha portato la sua amministrazione a consegnare nelle mani del nuovo sindaco Rahm Emanuel – l’ex rambo di Barack Obama, il consigliere numero uno del presidente – tutti i record di Ecopolis.
Sei milioni e mezzo di metri quadrati di giardini pensili, il 20 per cento in più di strade permeabilizzate, 120 nuovi «corridoi verdi», 6000 alberi piantati di specie più adatte al cambiamento, 15 nuove stazioni climatiche per tenere sotto controllo la febbre ambientale in città … Non è solo l’applicazione di un programma virtuoso. L’ultimo studio commissionato dal comune rivela che se non si agisce, e subito, entro il 2070 la metropoli che guarda al Canada finirà ai tropici. Quasi quintuplicati i giorni di calura massima, quelli che superano i 32 gradi: da 15 a 72. E così la città famosa per la concentrazione dei venti («Windy City») corre ai ripari dotando tutte le 750 scuole pubbliche dei non proprio ecologissimi condizionatori. Neppure le stagioni saranno più quelle di una volta. La variazione di percentuale dei giorni di pioggia – il 35 per cento di più in inverno, il 20 per cento in meno d’estate – non solo costringe a rifare la pavimentazione stradale con materiali capaci di filtrare l’80 per cento di acqua: la metropoli è già invasa dai depliant che spiegano l’ “allerta pioggia”.
Cosa fare, come difendersi: comprese le istruzioni per tenere pronto una «Go Bag», una borsa d’emergenza per prendere e partire. Come se qui fossimo, appunto, a New Orleans, Louisiana, e non a Chicago, Illinois. No, non doveva accadere tutto così in fretta. In fondo, maligna qualcuno, il sindaco Daley – per un ventennio padrone della città e figlio dell’altro Richard J. Daley che regnò nel dopoguerra – aveva lanciato l’ambizioso piano ecologico, «Chicago 2020», per rispolverare l’immagine della metropoli negli anni della candidatura (fallita) alle olimpiadi. L’incubo del riscaldamento globale ha spinto adesso l’acceleratore sulle politiche di «adaptation»: sollevando per la verità più di una obiezione.
Lan Richart allunga la mano nel pollaio ricavato sotto la scalinata di legno che dal salotto ti porta giù nel giardino di casa: «Vuole?». L’ovetto appena scodellato ha un bell’aspetto. Quattro gallinelle, quattro ovetti al giorno. Non è il tipo di prodotto che ti aspetteresti di vederti offrire nel cuore di Rogers Park, che pure nell’800 era territorio di fattorie ma oggi è un insediamento operaio. Lan e Pam sono i leader di Eco Justice Collaborative, l’associazione che ha messo in piedi 57 gruppi non profit: una grande mobilitazione nazionale che ha sfiorato l’adozione, in consiglio comunale, di quella Clean Power Ordinance che avrebbe chiuso per sempre Frisk e Crawford, i due ultimi stabilimenti di energia a carbone. «Tutte ottime cose nel piano ambientale del comune» dice Lan che non parla certo come un pasdaran. «Ma la prima cosa da fare non sarebbe chiudere quei mostri?».
Uno studio dell’Harvard University, datato 2000, accusava l’industria del carbone – il vero volano di un secolo e mezzo di boom economico – di fare 300 morti e 14mila malati di asma all’anno. Larry, il portavoce dell’ambiente, scrolla la testa: quelle fabbriche, dice, rientrano nella giurisdizione statale, noi non c’entriamo. Storia vecchia. Anzi di più. Jeff Biggers, il nipote di minatori diventato scrittore e apostolo dell’ambientalismo, rispolvera l’editoriale del «Chicago Tribune», anno del Signore 1892: «Per quanto tempo, ancora, la terra potrà sopportare la vita se continueremo a dipendere dal meraviglioso potere del carbone?». Lan e Pam sanno benissimo che neppure qui a Ecopolis possono tutti vivere sostenibilmente come loro: questa è la seconda città d’America, 10 milioni di persone, e non saranno quattro uova a salvarla dal riscaldamento globale. Però anche i Richart, sinceri democratici, sottolineano la contraddizione del cittadino di Chicago più famoso del mondo, Barack Obama: «Come si fa parlare di “carbone pulito”? Esiste forse il petrolio pulito?».
Se è per questo i giardini sui grattacieli esistevano solo nei «rendering» degli architetti più visionari. E invece qui, nel cuore del Loop, nel centro che sfida la skyline di Manhattan, puoi salire sul tetto della Pepsi-co e sentirti un po’ in campagna. Sono ormai decine, quasi centinaia i «roof garden» che stanno cambiando i tetti di quassù: tutti obbligatoriamente bianchi, contro l’assorbimento del calore, per ordinanza comunale. E nascono qui, nel laboratorio del Chicago Center for Green Technology. Questo vecchio orrore dell’architettura industriale, che negli anni ‘90 era diventato la pattumiera dell’East Garfield Park, un quartiere dove per i bianchi c’era il coprifuoco, oggi è l’edificio comunale più ecologico d’America, categoria Platinum, la più alta nel sistema di patenti ambientali Leed consegnate dal governo Usa.
Bryan Glosik, l’assistent project coordinator, ti mostra i prototipi di giardino da impiantare, tra un modello di pannello solare a un altro. «Le funzioni principali? Due: tenere più freschi d’estate, risparmiando sui condizionatori, e drenare le piogge d’inverno». Giardini veri. Sbocciati persino sui tetti dei grattacieli che ospitano i ristoranti più chic, da Uncommon Ground a Frontera, che ora sventolano frutta e verdura finite nei loro menu da lassù. Certo, ci sarebbe un piccolo problema: «L’aria troppo inquinata costringe a rimescolare i terreni più che altrove». Però dal tetto al piatto: altro che chilometri zero.
Anche così, a tavola, la città del vento affronta l’ “adaptation”: provando a scacciare l’ultima maledizione del blues. Fu seguendo il Mississippi, dal Delta ai Grandi Laghi, che milioni di neri si riversarono per decenni dal Sud al Nord: compreso quel Muddy Waters che qui scoprirà la chitarra elettrica, cambiando per sempre la storia della musica. Insomma Chicago è già Louisiana: solo molto, molto più ricca – ed eco-conscia. Basterà a salvare la spiaggia di Oak Street dalle paludi che verranno?
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