Ecco perché l’Italia ha bisogno di loro
L’accesso alla cittadinanza e prima ancora al soggiorno in Italia si conferma così ancora molto differenziato per gli uomini e le donne che vengono da altri paesi. I primi vengono prevalentemente per lavoro, le seconde prevalentemente per matrimonio. Il che significa anche che i matrimoni in cui uno dei coniugi è straniero vedono prevalentemente un marito italiano e una moglie straniera.
Si tratta di forme di accesso alla cittadinanza non solo diverse istituzionalmente, ma anche per i percorsi di integrazione che sollecitano. Il matrimonio può essere una via apparentemente più facile della cittadinanza ottenuta per lavoro, ma può essere molto più esigente sul piano dell’integrazione e dell’adattamento, dato che si ha a che fare con attese e giudizi che riguardano direttamente gli stili di vita personali e i modelli di normalità quotidiana, e che sono formulati dalle persone più vicine: i parenti e gli amici propri e altrui. È tuttavia anche la strada più aperta ad abusi, con matrimoni di comodo. Ho il sospetto (nei dati resi pubblici non c’è questa informazione) che il forte aumento delle cittadinanze negate, quasi raddoppiate rispetto all’anno prima, riguardi proprio quelle richieste in base al matrimonio, nella misura in cui sono aumentati i controlli.
Soprattutto tra chi, donne e uomini, è divenuto cittadino dopo aver risieduto e lavorato a lungo in Italia, il livello di istruzione è mediamente buono. Più della metà delle donne ha almeno il titolo della scuola media superiore e in molti casi anche la laurea. È in una situazione analoga il 43 per cento degli uomini. Si tratta quindi di nuovi cittadini/e non solo mediamente giovani, ma istruiti altrettanto se non più della media dei cittadini autoctoni, certamente almeno bilingui, competenti nel transitare tra culture diverse e nel «tradurle» l’una all’altra. Si tratta di caratteristiche preziose per loro come per la società italiana. Una società che non solo è avviata all’invecchiamento, ma che non riesce spesso a trattenere i propri giovani meglio formati e fa fatica ad attrarne da altri paesi.
Sarebbe opportuno che il lieve trend in crescita nel numero di cittadinanze concesse venisse robustamente rafforzato concedendo più facilmente – automaticamente, mi verrebbe da dire – la cittadinanza a quei ragazzi che sono nati o comunque cresciuti in Italia e per i quali l’Italia è il Paese di ovvia appartenenza e l’italiano la lingua corrente. Qualche tempo fa i ricercatori Gianpiero Dalla Zuanna, Patrizia Farina e Salvatore Strozza hanno segnalato (I nuovi Italiani, Il Mulino, 2009) che, benché ottengano mediamente risultati peggiori degli autoctoni in una scuola che spesso non ha strumenti per integrarli davvero, i ragazzi «stranieri» hanno atteggiamenti meno tradizionali dei giovani italiani, pur provenendo spesso, anche se non sempre, da paesi dove famiglia e clan sono gli assi portanti della società . In particolare, contro tutti gli stereotipi, le ragazze hanno una visione delle donne più moderna rispetto alle coetanee italiane. Invece di frapporre troppi ostacoli e finestre strette alla loro acquisizione di cittadinanza, la garanzia di ottenimento della cittadinanza, se la desiderano, dovrebbe fare parte esplicitamente del patto sociale che si stipula con loro. Per evitare che le difficoltà di vivere tra due mondi e due culture si trasformino in estraneazione e rancore.
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