Dove finisce il tesoro di mafia

by Sergio Segio | 1 Giugno 2011 13:41

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Proprietà  di Cosa Nostra, che lo Stato è riuscito a conquistare. L’intestatario, Vincenzo Piazza, prestanome di vari boss della cupola stragista, arrestato nel ’94 in una favolosa tenuta di 800 ettari sulle colline di Siena (anch’essa confiscata), è morto dopo la condanna definitiva: il suo impero si estendeva su oltre 600 immobili, comprese le sedi di 36 scuole pubbliche, sei assessorati, il comando dei vigili e perfino il palazzo della Procura. Solo questo tesoro, spiega l’amministratore nominato dai giudici, vale “oltre un miliardo di euro”.

In Sicilia si contano 525 aziende e 4.470 immobili entrati nel demanio pubblico grazie alle inchieste antimafia. Magistrati e polizia giudiziaria continuano a indagare in tutta Italia: il bilancio nazionale, aggiornato al primo aprile, è di 1.395 imprese e 9.922 immobili confiscati con sentenze definitive. Un patrimonio unico al mondo. “Tra gli Stati con un enorme debito pubblico, l’Italia è l’unico che potrebbe risanarsi con la lotta alle cosche”, ragiona Alfredo Didonna, consulente di banche internazionali, improvvisatosi blogger antimafia a Palermo. Il problema è che a far fruttare le risorse sottratte ai criminali dovrebbe pensare la classe politica. Il vero simbolo di una Palermo sempre in bilico tra mafia e antimafia, dicono i più pessimisti, è ancora l’hotel San Paolo: 14 piani vista mare, 354 stanze, piscina sul terrazzo e grandi sale congressi, eppure, da quando è stato tolto ai boss, in crisi finanziaria. E così, dietro i proclami trionfalistici, l’antimafia dei fatti naufraga tra beni in rovina, imprese che falliscono, lavoratori licenziati e padrini che restano padroni dei beni confiscati.

IL FEUDO INTOCCABILE. La favola di Cosa nostra in ritirata finisce a Verbumcaudo, una storica tenuta con vista mozzafiato tra Caltanissetta e il mare: 150 ettari di olivi secolari, distese di foraggio e campi di grano incastonati tra vigneti Doc. Trent’anni fa l’ha comprata Michele Greco, il “papa” di Cosa Nostra, pagandola appena l’equivalente di 325 mila euro, per metà  forniti dalla camorra. Al centro, su una collina che domina i luoghi dove nacque la mafia rurale, c’è una masseria che pare abbandonata. Ma basta avvicinarsi per veder spuntare due cani ringhiosi e tre campieri, che sembrano alternarsi a sorvegliare i curiosi, più che le loro cento pecore. In teoria questo feudo è confiscato fin dal 1987: il giudice istruttore si chiamava Giovanni Falcone. Ma il Comune di Polizzi Generosa, che potrebbe beneficiarne, non l’ha ancora ottenuto. Per colpa di un debito mafioso: l’ipoteca chiesta da Sicilcassa per prestare 363 mila euro ai signori imprenditori Michele e Salvatore Greco.

Gravato da quel passivo, gonfiato dagli interessi a 2 milioni e mezzo, tra il 2008 e il 2009 il feudo dello Stato rischia di finire all’asta. Un sindacalista della Cgil, Vincenzo Liarda, mobilita il suo Comune per assegnarlo a “una cooperativa agricola che assumerà  giovani”. Da allora Verbumcaudo diventa una sfida, tra occupazioni simboliche, con Susanna Camusso in testa a un corteo di bandiere rosse, e intimidazioni reali. Liarda, 44 anni, riceve lettere anonime con polvere da sparo e foto di Falcone e Borsellino: “Lascia stare il feudo o farai la stessa fine”. Una notte, mentre lui è assente, sua moglie e la figlia di dieci anni sentono forzare la finestra: in casa cade una busta con due pallottole. Liarda ottiene due agenti di tutela, ma solo per otto mesi. E non ne fa un dramma: “Non mi piace vivere scortato. Eroe io? Sono solo uno dei tanti siciliani che sognano un futuro di sviluppo nella legalità “, dice, accompagnando da solo gli estranei nel feudo.
In sua difesa insorge Giuseppe Lumia, ex presidente della Commissione antimafia. Cosa Nostra ricambia con minacce di morte a entrambi: “L’ultima lettera è stata recapitata a mano in Senato, tre settimane fa”, fa notare il parlamentare pd. A quel punto il presidente dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, Mario Morcone, prima dell’aspettativa per candidarsi a Napoli, riesce a chiudere una transazione con Unicredit, erede di Sicilcassa, che accetta di ridurre il debito a 400 mila euro, senza più ipoteca. Al Comune basterà  pagare poco più di 2 mila euro al mese, per 15 anni. Lieto fine? Liarda non si accontenta di un’eccezione: “C’era un protocollo per fare di Verbumcaudo il primo dei tanti beni confiscati da gestire con un consorzio tra 21 Comuni e la Provincia. Ma hanno firmato solo in tre”. E chi comanda negli altri? Il sindacalista ride: “Centrodestra ovunque”.

PROPAGANDA E REALT?€. Il governo Berlusconi ha cercato più volte di appropriarsi dei successi delle procure antimafia. Tra le elezioni 2008 e l’ottobre 2010 l’impegno dei politici avrebbe “sottratto alla criminalità  35.601 beni, per un valore di 17,8 miliardi: più 523 per cento rispetto al periodo precedente”. Togliendo i sequestri (annullabili), i presunti miliardi scendono subito a tre. Il governo poi non spiega come ha conteggiato i beni mobili, spesso di valore incerto o nullo.

L’agenzia invece avverte che su 3.691 automezzi sotto custodia a spese dello Stato, quasi metà  sono risultati “mai rinvenuti” ai controlli (1.074) o “rottamati” (438). In parcheggio resta anche il 45 per cento dei terreni, ville e appartamenti: la procedura di “sequestro”, “confisca definitiva”, “destinazione” e “consegna” dura in media tra 7 e 10 anni; e in tre casi su quattro è bloccata da ostacoli legali, come ipoteche o comproprietà  spesso sospette. L’unica istituzione che ha verificato davvero i bilanci pubblici è la Corte dei conti. Risultato: per lo Stato, nel 2009, il “totale dei proventi dei beni confiscati” è di appena 5 milioni e 719 mila euro. Nel 2007 (governo Prodi) erano il doppio. Mentre con le strombazzate misure anti-scafisti lo Stato ha incassato 26 mila euro annui. A gonfiare i dati del governo, per 2,2 miliardi dichiarati, è il Fondo unico per la giustizia (Fug), che incamera contanti e titoli sequestrati, senza aspettare la confisca: peccato che Tremonti abbia accolto un’idea di Francesco Greco, uno dei pm meno amati da Re Silvio.

BENI LIBERATI. La Corte però non calcola i risparmi presenti e futuri. “Restituire alla comunità  i beni tolti alla mafia ha un valore simbolico oltre che economico”, avverte il procuratore di Torino, Giancarlo Caselli, come cita “il buon esempio della cascina Caccia a Chivasso”, intitolata al magistrato ucciso dalla ‘ndrangheta e confiscata al mandante del suo omicidio. Qualche pm, da Milano alla Puglia, autorizza le forze di polizia a usare subito auto, computer, telefoni e appartamenti sequestrati. Il procuratore di Bari, Nicola Laudati, viaggia sul fuoristrada tolto al padrino Savinuccio Parisi. A Corleone l’ex casa della famiglia Provenzano ospita la Bottega dei saperi e dei sapori del consorzio-modello Libera Terra di don Ciotti. E nel paese di Riina funziona anche la cooperativa Lavoro e non solo: 170 ettari di vigneti e ortofrutta, mezzo milione di ricavi e “7 mila conserve di pomodoro vendute tra i nostri 12 mila concittadini”, rivendica il direttore, Salvatore Ferrara, che si prepara a ospitare la quarta ondata estiva di “mille studenti e volontari nei campi di lavoro”.

Nelle aree più disperate di Calabria e Campania, però, la liberazione degli immobili resta un’impresa militare. La squadra mobile reggina ha scoperto ben 91 abitazioni in teoria confiscate, ma che fino al settembre 2010 erano occupate abusivamente dai parenti del boss, magari ergastolano o latitante. Ora toccherebbe ai Comuni assegnarli a scopi sociali. A Palermo i precedenti sono disastrosi: decine di assegnazioni clientelari (perfino a familiari di criminali) denunciate da “Striscia la notizia” e ora inquisite dalla Procura. Ingiustificabili anche certe inerzie al Nord: a Lecco il mega-ristorante del capoclan Coco Trovato, confiscato nel ’96, è rimasto in abbandono per 15 anni. Quando un cronista ne ha filmato il degrado, il prefetto ha reagito: ha denunciato il giornalista. E ora si rifiuta di pubblicare gli indirizzi dei 38 immobili confiscati alla ‘ndrangheta del Nord.
IMPRESE IN CRISI. “I problemi più gravi riguardano le aziende confiscate”, spiega il procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone: “L’impresa mafiosa impone prezzi e contratti, piega concorrenti e fornitori con minacce o violenze, abbatte i costi con il lavoro nero e i reati ambientali, non ha difficoltà  di credito anche perché può riciclare enormi profitti illeciti… Quasi tutte le aziende falliscono appena si cerca di riportarle sul mercato legale. E il messaggio sul territorio è disastroso: la mafia dà  lavoro, lo Stato no”. Il giudice Raffaele Cantone, che da pm ha fatto condannare all’ergastolo i boss casalesi, ricorda un caso da manuale: “La Dia aveva scoperto che la moglie di un detenuto incassava dieci milioni di lire al mese da un allevamento di bufale. Dopo il sequestro, però, la stessa azienda produceva solo perdite. L’amministratore giudiziario ci ha spiegato il perché: con la camorra i mandriani lavoravano in nero, il fieno si comprava scontato, i caseifici non osavano rifiutare il latte…”.

Anche grosse aziende del Nord, attratte dai vantaggi dell’economia mafiosa, si sono ritrovate svuotate dalla ‘ndrangheta: esemplare il fallimento del gruppo Perego (edilizia e grandi opere). “In questi casi bisogna avere il coraggio di chiudere: lo Stato non deve creare false illusioni nei lavoratori, ma concentrarsi sulle aziende in grado di restare sul mercato con un serio piano industriale”, prende posizione l’avvocato Cappellano Seminara, che ha salvato anche le società  edilizie dell’ex Gruppo Piazza, costruendo 4 palazzi con la cassa a rotazione per 230 operai, oltre a gestire la Calcestruzzi spa (1.200 dipendenti), ora dissequestrata dopo lo scandalo del cemento impoverito.

Delle 1.395 aziende confiscate, moltissime sono “scatole vuote” usate solo per riciclare denaro sporco o frodare il fisco. Il dramma è che ogni cento aziende vere, con clienti e dipendenti, 33 tornano alla legalità  con debiti enormi e 54 con fatturati negativi e banche che bloccano i crediti. “In Lombardia mi ritrovo a dover chiudere perfino i bar, negozi e ristoranti”, lamenta Carlo Catenaccio, amministratore giudiziario di Milano: “I mafiosi sottraggono ogni liquidità  e la legge attuale non consente neppure alle aziende risanabili di chiedere prestiti al fondo di giustizia”.

Non si potrebbe usare il modello Parmalat, separando la nuova azienda dai debiti del passato? “E’ difficilissimo, perché la gestione legale comincia dal sequestro, che può essere sempre revocato, ridotto o modificato”, risponde Andrea Dara, amministratore dell’ex gruppo Aiello. La sua Villa Santa Teresa, il grande ospedale confiscato, sta risarcendo alla Regione Sicilia 36 milioni di buco creato dai complici di Cosa Nostra. “E un ciclo di radioterapia oggi costa 80 volte di meno”. “La lotta alla mafia è una sfida economica: per gestire aziende non basta conoscere la legge, servono capacità  da manager”, sottolinea il professor Giovanni Fiandaca, che all’ateneo di Palermo ha creato una scuola di formazione per amministratori giudiziari. Nel 2007, all’agenzia Italia Lavoro, gli allora ministri Damiano e Visco hanno assunto una squadra di quattro tecnici, guidata da Rosa Laplena, specializzati nel risanamento di aziende confiscate. I salvataggi più difficili, dalla Calcestruzzi Ericina al Gruppo Ulivi-Sigonella, portano la loro firma. Costo totale per lo Stato: 150 mila euro lordi l’anno. L’attuale vertice di Italia Lavoro li ha licenziati mentre erano in trincea per salvare la Riela trasporti e altre aziende. Come hanno dichiarato vari politici siciliani al “Sole 24 Ore / Sud”, il ministro Sacconi aveva promesso di riassumerli, “ma non ha mantenuto la parola”.

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