Dopo i massacri e le mediazioni fallite anche Erdogan molla l’ex amico Assad

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ANKARA – «Zero problemi con i vicini». Tutti gli Stati lo vorrebbero. Ma questo programma, che è uno dei due cardini della nuova politica internazionale attuata dal ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu, ex cattedratico ed ex consigliere del premier Tayyip Erdogan, è un intento un po’ più difficile da perseguire per un Paese come la Turchia, che vede schierate ai suoi confini nazioni non esattamente facili come Grecia, Bulgaria, Georgia, Armenia, Iran, Iraq e Siria.
Proprio la crisi siriana mette a dura prova Ankara, che si prepara quest’oggi a elezioni decisive per il terzo mandato che il popolo affiderà  a Erdogan. Il primo ministro punta infatti subito dopo a modificare la Costituzione in senso presidenziale. Il suo sogno segreto, che potrebbe portarlo alla testa del Paese, è quello di scambiarsi la carica con l’attuale capo dello Stato, Abdullah Gul, e arrivare così nel 2023 all’appuntamento dei 100 anni dalla fondazione della Turchia di Ataturk, saldandosi idealmente al padre della patria.
Erdogan è uomo di grandi visioni. E la politica di «zero problemi» applicata dal suo uomo agli Esteri, Davutoglu appunto (il cui secondo ambizioso cardine, espresso nel libro “Profondità  strategica”, è: «Un Paese deve fondare la sua forza sul proprio retroterra culturale»), viene sottoposta all’esame dei disordini in Siria e della rivolta in Libia. Con il regime di Damasco, Ankara sta mostrando il suo volto più duro, sfruttando in questo caso anche quello inflessibile della potente classe militare. L’ammorbidimento tattico e l’alleanza politica giocati in passato con il regime degli Assad è cosa ormai superata di fronte ai massacri perpetrati dagli scherani della famiglia alawita al potere, e alla fuga di centinaia di persone oltre frontiera, in territorio turco. A nulla sono valsi i tentativi di mediazione offerti.
Così la musica è cambiata. E l’altro giorno il presidente Gul, uomo ben più duttile di Erdogan, ha detto di essere pronto «ai peggiori scenari», compreso quello «militare» qualora Assad non fermi la strage. Parole pesanti. Ma il mondo sa perfettamente che la Turchia non scherza. Quando, nel 1998, l’esercito ammassò le proprie divisioni al confine siriano per costringere Damasco a cacciare definitivamente il capo del Pkk, Abdullah Ocalan, considerato da Ankara il terrorista numero uno (il quale finirà  per rifugiarsi due mesi in Italia, prima di essere catturato dalle teste di cuoio turche in Nigeria), la Siria spaventata obbedì. Ieri fonti di intelligence israeliane con il sito Debka sostenevano che truppe turche sarebbero anzi pronte a un intervento militare, già  approvato dallo stesso Erdogan. Un’indiscrezione che non stupisce. Al tempo della guerra in Iraq, nel 2003, soldati turchi in incognito avevano preparato le loro basi nel Kurdistan iracheno.
Non dissimile l’approccio che Ankara sta tenendo con la Libia, dove tenta il negoziato. Venerdì Erdogan ha proposto «garanzie» a Gheddafi, con il sottinteso di essere disposto a ospitarlo in condizioni di sicurezza, e invitandolo così a lasciare Tripoli definitivamente. La diplomazia turca ha gestito la crisi libica con grande saggezza. Ha prima fatto evacuare i feriti, portandoli sul proprio territorio e curandoli. Ha poi salvato le vite dei giornalisti americani che stavano per essere giustiziati dai ribelli. E ha infine tentato di mediare disperatamente un accordo fra le due parti. I diplomatici turchi sono stati gli ultimi a lasciare forzatamente Tripoli. Ora arriva l’offerta a Gheddafi. Davvero la Turchia si sta dimostrando un giocatore globale nella regione. E molti osservatori concludono che l’Europa ha di che riflettere, circa il proprio rifiuto a non voler ammettere un Paese che ha sempre maggiore spessore e personalità .

 


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