Disarmo elettorale

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E l’aritmetica è elementare: mantenere un soldato per un anno in Afghanistan (o in Iraq) costa, tutto compreso (logistica, infermeria, rifornimenti, armamenti), un po’ più di un un milione di dollari a persona. Quindi una divisione di 5.000 uomini costa più di 5 miliardi di dollari e il corpo di spedizione attuale in Afghanistan (101.000 uomini) e in Iraq (45.000 uomini) costa 159 miliardi di dollari (senza contare le spese retroattive che si protrarranno per decenni, come quelle sanitarie per gli invalidi di guerra e le pensioni ai veterani).
Questi 159 miliardi di dollari si aggiungono ai 549 in bilancio alla Difesa. Incluse tutte le altre voci, le spese militari per il 2011 ammontano a 895 miliardi di dollari, pari a tutta la spesa militare di tutti gli altri paesi della terra messi insieme.
Nel frattempo, forti della loro maggioranza nella camera bassa, i repubblicani si dedicano a potare selvaggiamente tutte le spese non militari: salute, previdenza, istruzione. Già  ora la Casa bianca, per «mediare», ha proposto per i prossimi 12 anni tagli per 4.000 miliardi di dollari che riguardano il bilancio federale. Ma la stretta è più drammatica per comuni, contee (equivalenti alle province), singoli stati, con licenziamenti in massa nella scuola, nella sanità  pubblica, persino nelle forze dell’ordine. A loro volta, licenziamenti e precarietà  bloccano il mercato immobiliare (con tali prospettive, chi è così pazzo da accollarsi un mutuo?), contraggono i consumi e quindi dissuadono le imprese dall’assumere, aggravando così la disoccupazione in una spirale da cui non si vede come gli Usa possano uscire se persistono nella politica fin qui seguita che ha inondato di denaro facile solo banche e speculatori di borsa.
È in questa situazione che il presidente Barack Obama affronta la campagna per ottenere un secondo mandato nel novembre dell’anno prossimo. Ed è alla luce di quest’aritmetica elementare e insieme delle esigenze elettorali che va letto l’annuncio di mercoledì notte.
Se infatti il mercato del lavoro non fosse così depresso, Obama avrebbe buone prospettive di essere rieletto nel 2012, certo migliori di qualche mese fa: il presidente potrebbe far tornare a proprio vantaggio tutta una serie di elementi favorevoli. 1) L’assenza di un contendente repubblicano forte. Il Grand Old Party non riesce a mettere in campo un nome credibile e nuovo. O tira fuori minestre riscaldate come l’ex governatore del Massachusetts, il mormone Mitt Romney; o si affida a esagitate come Michelle Bachmann, epigona di Sarah Palin: e i democratici pregano in silenzio perché la Bachman ottenga la nomination repubblicana creando le condizioni per il più spettacolare harakiri elettorale dell’ultimo secolo. 2) L’uccisione di Osama bin Laden mette la parola fine agli esami di patriottismo cui Obama è stato ininterrottamente sottoposto da quando ha giurato.

3) La tregua firmata tra Obama e le grandi banche di Wall street: non si può vincere una presidenziale senza l’appoggio di almeno una parte del capitale Usa, e poiché i petrolieri, l’armamento e i farmaceutici sono decisamente filo-repubblicani, i democratici non possono fare a meno della finanza della costa est. 4) Grazie a questa nuova tregua Obama si prefigge l’obiettivo di raccogliere per la nuova campagna elettorale finanziamenti record per un miliardo di dollari. 5) Sta rifluendo l’onda isterica anti-riforma sanitaria, anche perché si è dimostrato che la riforma non ha cambiato quasi niente. 6) Infine lo spostamento a destra del partito repubblicano, tutto sbilanciato dal Tea Party, riporta verso Obama gli indipendenti delusi.
Nessuno di questi elementi è particolarmente di sinistra. Tutti però giocano a favore di Obama. Ma saranno vanificati se l’occupazione non riparte. Ed è con questo ricatto che i repubblicani tengono al guinzaglio il presidente. Le loro minacce di tagli sono solo lo strumento per impedire una ripresa vigorosa dell’economia Usa prima delle presidenziali: per loro l’unica speranza è presentare un bilancio economico fallimentare del primo mandato.
Ecco perché Obama ha deciso di giocare al rilancio sull’Afghanistan: è un tema su cui spacca gli avvversari. I «nuovi» repubblicani sono isolazionisti: così il Tea Party, così Ron Paul che pretende un ritiro ancora più accelerato di quello proposto da Obama (che ritirando 33.000 uomini ne terrà  a fine del primo mandato 68.000, cioè più del doppio di quanti ne avesse inviati sul terreno il «guerrafondaio» George Bush). L’altra parte dei repubblicani, più legata al Pentagono, sente questo ritiro come un attacco ai generali. E il capo di stato maggiore Mike Mullen ha espresso il proprio disaccordo con parole che più forti non poteva, pena il licenziamento («Il ritiro annunciato mi pare molto più rischioso di quello a cui avevo dato il mio assenso»). Per di più, nel suo discorso Obama non ha mai nominato il comandante in capo in Afghanistan, il generale David Petraeus (già  promosso a prossimo direttore della Cia).
In pratica Obama sta usando le truppe in Afghanistan come merce di scambio con i repubblicani per ottenere misure di rilancio delll’occupazione. Ma nel frattempo scontenta la base democratica che lo aveva eletto sperando in un presidente contrario alle avventure militari e invece si ritrova non solo con un surge in Afghanistan, ma anche con un’avventura libica di cui non si riesce a vedere l’esito.
Resta quindi tutto da vedere se sulla scacchiera della politica Usa lo scambio proposto da Obama – divisioni militari contro assunzioni in massa – sarà  accettato dall’avversario o se invece i repubblicani sacrificheranno alfieri e torri per forzare lo scaccco matto.


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