Ddr, scienza e animali ecco perché la verità ci fa sempre paura
Un titolo potente attira l’attenzione e può fare la fortuna di un libro, ma non è mai innocente. La sua forza, lo qualifica come una chiave di interpretazione, il prisma attraverso il quale leggiamo la storia. Forme originarie della paura il titolo scelto da Einaudi per l’edizione italiana del libro di Marcel Beyer (per sineddoche, essendo questo il titolo del saggio scritto dal protagonistadel romanzo, nonchè perno della vicenda), è potentissimo. Molto più di quel Kaltenburg che l’autore aveva voluto, affidandosi al nome del protagonista. Madame Bovary contro La linea d’ombra. Ma il libro di Beyer è davvero un romanzo sulla paura, come suggerisce il titolo italiano, così come quello di Conrad lo era su quel confine dell’esistenza divenuto proverbiale?
Tedesco, poco più che quarantenne, poeta e narratore molto conosciuto anche nel mondo anglosassone, Marcel Beyer racconta la storia di uno zoologo ed etologo, Ludwig Kaltenburg appunto, il cui modello sembra essere il celebre Konrad Lorenz. Come lui, Kaltenburg è un uomo eccentrico e fascinoso, dalla lunga chioma bianca, austriaco, appassionato di motociclette. Nobel per la Medicina nel 1973, Lorenz è stato un teorico del comportamento animale ma soprattutto un formidabile divulgatore. Solo la teoria della relatività può competere in successo mondano con la storia delle oche e dell’imprinting proposta nel suo Io sono qui, tu dove sei?. Anche il saggio di Kaltenburg, Forme originarie della paura, ottiene un enorme successo di pubblico. Il suo autore diviene un personaggio conosciuto anche fuori dalla comunità scientifica, ma da questa aspramente criticato. Per aver osato sconfinare in un terreno meno tecnico, più psicologico, soprattutto nel capitolo dove affronta il rapporto tra uomo e animale in circostanze estreme.
Rarissime sono le opere letterarie che descrivono l’inferno dei bombardamenti anglo americani sulle città della Germania. La tesi di W. G. Sebald, esposta nel suo Storia naturale della distruzione, è che si tratti di un vero e proprio tabù. Non era sopportabile per i tedeschi l’idea che fossero proprio loro, «i quali si erano dati come obiettivo quello di ripulire e igienizzare al completo l’Europa», a trasformarsi in un popolo di ratti. Una fiumana di disperati che vagava tra le rovine scavando nello sfacelo.
Tra il 13 e il 15 febbraio 1945, racconta Kaltenburg, le forze aeree anglo-americane bombardarono Dresda. Ci furono decine di migliaia di morti, la città fu rasa al suolo e le esplosioni crearono una tempesta di fuoco, tenuta viva da una specie di tifone di aria calda, che bruciò per ore. Lo zoo, come tutto, non esisteva più e gli animali impazziti vagavano per la città . Un gruppo di scimpanzé si era fermato accanto ad alcune persone che, attonite, osservavano i cadaveri tutti intorno a loro. Sembrava, scrive Marcel Beyer, che gli scimpanzé guardassero «alternativamente negli occhi morti e i vivi cercando consiglio»: Così, quando qualcuno finalmente aveva iniziato a trascinare via i corpi per le braccia e le gambe, adagiandoli su una striscia di prato, le scimmie avevano fatto lo stesso.
La persona che descrive questa scena al professore, è il suo allievo Hermann Funk, allora ragazzino, che nel bombardamento perse entrambe i genitori. È lui, divenuto a sua volta ornitologo, la voce narrante del romanzo. Nato a Posen e poi trasferito per un breve e fatale periodo a Dresda, Funk non è un predestinato. La sua vocazione non si manifesta con precisione, malgrado il padre botanico lo incoraggi all’osservazione della natura e lo educhi al rispetto degli animali. Forse non sarebbe neanche diventato un ornitologo se Kaltenburg non lo avesse quasi obbligato a seguirlo, dopo averlo conosciuto bambino. Eppure, di quell’incontro avvenuto quando ancora Hermann abitava a Posen, Kaltenburg finge di non avere memoria, lo censura dalla sua biografia, come alcuni altri piccoli episodi.
Perchè? Di cosa parla, appunto, il romanzo di Beyer? Questo è l’incipit: «Fino alla sua morte, nel febbraio 1989, Ludwig Kaltenburg aspetta il ritorno delle taccole». Prosegue descrivendo le abitudini degli amati corvi, e delle innumerevoli specie di volatili che abitano nella casa insieme al professore. Studiati e coccolati, ospitati come fossero loro i padroni. Sono loro, gli uccelli, i protagonisti di questo superbo romanzo di Beyer. Sono le loro abitudini a dettare il ritmo, delle loro vite, e della loro morte improvvisa e misteriosa parla questo libro. Che è senza dubbio una riflessione sulla paura ma è anche, e soprattutto, un romanzo sulla verità .
Ho letto le prime dieci pagine di Forme originarie della paura almeno tre volte. Per quanto sono belle, ma anche perché, come tutto il resto del libro, sono ellittiche fino allo spaesamento. Non che non si dica, si dice tutto quello che è necessario come sanno fare i grandi scrittori, ma la vicenda sembra negata. Fino a diventare uno strano giallo, nel quale niente è quello che appare, e tutto si svela pagina dopo pagina, in un continuo ruminare del senso. Per farlo, per mettere in scena quel teatro della negazione che è stata la politica della Ddr, Marcel Beyer usa gli animali. Usa anche l’arte, Marcel Proust, l’amicizia, ma sono gli animali a rappresentare con precisione l’inermità di fronte alla catastrofe, e lo sconcerto che si prova quando alla semplicità monotona dell’accadere si sostituisce la progressione inarrestabile del male e la sua misteriosa e ostinata ottusità .
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