Dall’Eden a Gomorra
Nel suo recente Il Grande Saccheggio (Laterza 2011, pp. 217, euro 16), Piero Bevilacqua sottolinea come la questione ambientale sia l’aspetto più drammatico della crisi economica – una crisi che distrugge non soltanto le risorse ecopaesaggistiche, ma anche e soprattutto, il tessuto politico-culturale e le soggettività civili e sociali. Per uscirne bisogna «rimettere in valore» il territorio – con un senso, però, che sia lontano tanto dalle marxiane «teorie del valore», quanto dal concetto di «valore di mercato» (spesso più finanziario che economico) con cui oggi si pretenderebbe addirittura di ridefinire (e svendere) anche i beni comuni e culturali come l’ambiente, il territorio, il paesaggio.
Parlare di «valorizzazione» significa invece richiamarsi ai dettami del Codice del Paesaggio, («riattribuzione di peso socio- culturale») o a quelli del Programma Territorialista (affermazione dei valori «verticali», intangibili,non spostabili, tipici dei luoghi).
Ecologista per forza
Non dovremmo infatti dimenticare mai che un tempo il territorio non era esclusivamente «fattore di produzione» e che tale è diventato soltanto con le rivoluzioni industriali «moderne». Prima, come ricorda Angelo Turco in Configurazioni della territorialità (Franco Angeli 2010, pp. 336 euro 24), abbiamo «abitato i luoghi», depositando «strati di civiltà » che non degradavano, anzi arricchivano, il paesaggio proprio per le relazioni virtuose tra l’ambiente naturale e gli oggetti che man mano vi trovavano posto. Un tempo, certo, mancava la tecnologia per iperconsumare, offendere l’ambiente. L’uomo era «forzosamente» ecologico ma, acquisita la tecnologia necessaria, si è illuso di «garantirsi la sostenibilità con il progetto», finché il peso degli interessi economici è stato tale da pervadere e modellare l’intero spazio (diceva Walter Benjamin che «il territorio della contemporaneità è disegnato dalla statistica»).
Un futuro possibile (anche economico) richiede dunque il blocco del consumo di suolo, il risanamento ambientale, la riconversione ecologica delle produzioni e un alto tasso di smaterializzazione (innovazione sociale, quanto tecnologica, mobilità sostenibile ed energie rinnovabili, ripresa delle colture tipiche, accorciamento delle filiere, consumi a «chilometro zero»). Di questo tipo è la Green Economy prefigurata da Guido Viale nel suo La conversione ecologica. There is no alternative (NdA Press 2011, pp. 184, euro 10). Una visione di economia ecologica che tratta con le pinze il termine «sviluppo» forse qui più prossimo alla «decrescita» e che comunque è fondato su una ripresa «colturale e culturale» dei contesti.
Molti riferimenti in una direzione simile giungono anche dall’ultimo lavoro di Salvatore Settis, Paesaggio, costituzione, cemento. La lotta per l’ambiente contro il degrado civile (Einaudi 2011, pp. 326, euro 19). Nell’enfatizzare il possibile versante culturale della green economy, molta vulgata politica e mediatica usa ricordare che «l’Italia è il paese che possiede se non il 70, il 60 o forse il 50% dei beni storico-culturali» di tutto il pianeta e quindi «ciò che stiamo distruggendo o degradando», i beni culturali, «devono e possono diventare una voce importante della nostra economia, magari intrecciata a un turismo intelligente». Opportunamente Settis sottolinea la futilità di tali argomentazioni e ricorda piuttosto il senso «costituzionale del nostro paesaggio» («L’Italia è stata il paese al mondo a fornire al paesaggio dignità costituzionale, con l’articolo 9 della Carta»).
Un senso costituzionale che non è solo il riconoscimento culturale di quel Bel Paese, già connotato da un alto valore sociale (l’importanza del paesaggio agrario italiano, descritto da Emilio Sereni, dopo i viaggiatori del Grand Tour), ma che sancisce l’esito di sistemi di regole con cui la comunità nazionale – anche assai prima dell’Unità – tutela il proprio patrimonio culturale e ambientale, e afferma così «il proprio costituirsi come cittadinanza» – proprio con «il rapporto quanto mai stretto tra natura e cultura, la creazione del famoso paesaggio italiano (Hannah Arendt)». La citazione è di Settis, che così prosegue: «Quest’Italia non era immobile, cambiava anzi ogni giorno, ogni ora, piano, con cura. Quei mutamenti anche profondi, ma sempre meditati, furono per secoli il frutto maturo di una mediazione mentale e sociale fra l’eredità del passato e qualche ipotesi per il futuro: ma quali che fossero desideri e progetti, l’ago della bussola era sempre fisso su un saldo senso di familiarità dello spazio vitale».
Monumenti della classicità
Questa continuità è ben sottolineata da Ilaria Agostini, che nel suo Il paesaggio antico (Aion 2009, euro 16) ci offre alcune notevoli descrizioni di diversi contesti del Bel Paese di ieri da parte dei viaggiatori del Grand Tour, tra cui famosi studiosi del Sette-Ottocento. «Richiamati in Italia dalle meraviglie antiche di Roma, dalle recenti scoperte archeologiche vesuviane e dalle ricchezze naturali tiburtine, ma anche dalle mutate condizione geo-politiche, i voyageurs focalizzano l’attenzione sulle curiosità di storia naturale e sulle opere d’arte: Il paesaggio agrario archeologico – come definito da Piero Camporesi – può costituire il fondale, ma talvolta si rivela protagonista della scena fino ad essere letto esso stesso come monumento della classicità ».
La studiosa fiorentina descrive le visitazioni di tre contesti ecoagricoli : la Campagna Romana, Tivoli e il Tiburtino, la Campania Felix. Questi ambienti «costituiscono nei decenni tra Sette e Ottocento le tappe fondamentali del Voyage d’Italia (…) e offrono ai protagonisti, nel contesto agrario di ascendenze millenarie, la testimonianza archeologica dell’insediamento classico, lo spirito nel rapporto tra l’idea dell’antico e la longue durée della nostra cultura materiale»; esemplari icone di quella fertile territorializzazione che aveva saputo dare luogo al Bel Paese.
Gli aranci di Chateaubriand
Colpisce pensare che molti dei contesti «cantati» da esponenti notevoli della storia della cultura occidentale, da Montaigne a Cassini, da Madame De Stael a Chateaubriand, da Bornstetten a De Sade, sono oggi cancellati, coperti dalla «blobbizzazione di cemento» che costituisce la versione italica della città diffusa. E lo studio di Ilaria Agostini è tanto più importante perché sottolinea come viaggiatori ed intellettuali coglievano un climax, che significava relazioni virtuose – ancorché costrette – non solo tra ambiente, paesaggio e territorio (non ancora costituitisi come modi, e quindi discipline, differenti, di leggere lo stesso oggetto spaziale), ma tra categorie etiche, estetiche e pragmatiche del sapere pratico, quotidiano.
Quello che oggi è «Gomorra», ieri era l’ Eden: «Da Gaeta ci si trova a tutti gli effetti nel Sud. Lasciata Fondi – scriveva Chateaubriand nel 1804 – ho salutato il primo aranceto: questi begli alberi erano pieni di frutti maturi… La strada per Napoli attraversa un jardin continuel: l’aria è così dolce e la campagna,così ricolma di ogni sorta di verdura, in tutte le stagioni; è come il paradiso terrestre».
Siamo lontani da quel mare di «cemento e rifiuti» che oggi sommerge tutto questo e che è anche, osserva Piero Bevilacqua, la migliore rappresentazione della distruzione dei tessuti sociali, culturali e civili. Eppure, nonostante tutti questi sfasci – sostiene Bevilacqua – il Bel Paese presenta ancora, oltre al patrimonio culturale, brani di paesaggio di assoluta eccellenza e rilevanza. Ce n’è abbastanza per concordare con Settis: un’altra pietra miliare sulla quale appoggiare quello scenario di società sostenibile, abbozzato da Guido Viale (la cui green economy diviene così funzionale alla qualità del vissuto dei luoghi; ma senza determinarla) è la tutela, che significa non solo conservazione del patrimonio, ma capacità di fruirlo, in coerenza con le sue caratteristiche. La nuova centralità di cultura e qualità della vita in uno scenario sociale prossimo futuro costituisce insomma la struttura principale di un programma politico. Bevilacqua e Viale del resto concordano: si esce dalla crisi abbandonando la centralità del pil e assumendo quella dei luoghi di vita.
È interessante rilevare come i diversi autori che abbiamo fin qui citato, pur provenendo da esperienze scientifiche e culturali affatto diverse, convergano con il Programma Territorialista di Alberto Magnaghi. Laddove quest’ultimo ne ha sviluppato i concetti nell’ambito di traiettorie interne alle scienze territoriali, gli altri giungono alle stesse considerazioni, ma muovendo da differenti campi: sociologia, antropologia, geografia, economia, anche filosofia.
Firmitas, utilitas, venustas
Nel progetto territorialista emerge una mente glocale, capace di declinare le attitudini locali di processi globali. Lo scenario futuro evolve secondo i criteri dello «sviluppo locale autosostenibile». Protesta tuttavia Serge Latouche, affermando che, dopo aver percorso molta strada nella critica al concetto di sviluppo, Magnaghi e i territorialisti cadono anch’essi nella «trappola dello sviluppo locale». Qui conviene mettere a fuoco quella che sembra una sfumatura, ma è un caposaldo del progetto territorialista: nello Sviluppo Locale Autosostenibile il concetto di sviluppo è un pretesto: ciò che deve crescere è il paniere di grandezze rappresentative dei valori che strutturano il luogo, caratteri tipici del contesto, non ripetibili né trasportabili: ecologia, cultura, archeologia, produzioni, colture… L’affermazione generale di queste risorse può significare anche decrescita delle variabili economiche, «sviluppo per sottrazione», secondo l’ironica definizione di Osvaldo Pieroni. Il prossimo «progetto di territorio» diventa dunque «scenario di società futura».
Nel suo Verso il Progetto di Territorio (Aion 2009, euro 32), Daniele Vannetiello propone un avanzamento possibile dell’asse della ricerca attraverso una rivisitazione di un’imponente rassegna di progetti di riqualificazione e disegno architetture, città o territori, tramite le categorie vitruviane di firmitas, utilitas e venustas, di recente riproposte da Francoise Choay: «Nella griglia che così si determina sono stati inseriti, in concatenazione logica, oggetti capaci di definire regole d’azione relativa al loro specifico ambito … e fare emergere la sostanza normativa ad essi sottesa».La ricerca di norme e regole, precisa Vannetiello, «è qui intesa propriamente in senso antropologico, convinti come siamo, con Claude Levi Strauss, che la regola “fonda la società umana e, in certo senso è come la società “».
Nonostante questo sforzo di chiarezza, lo studio – di notevole rilevanza anche per le dimensioni e le modalità di indagine dei casi proposti in rassegna – suscita alla fine alcuni lievi dubbi sull’impiego delle categorie vitruviane, che rischia di risultare alla fine didascalico quanto tendenzialmente rigido: l’uso manualistico e addirittura trattatistico di categorie che potrebbero rivelarsi utili «dopo un processo di decostruzione e ricontestualizzazione» risulta sempre problematico. Inoltre, la valenza normativa di molti progetti è prevalentemente tecnico-gestionale e lascia sullo sfondo, talora in modo eccessivo, i caratteri locali dell’azione sociale. Ma qui soccorrono le ultime vicende non solo del programma di ricerca, bensì dell’evoluzione dell’intera area scientifico-culturale dei territorialisti.
Non a caso, nel riconoscimento di un nuovo soggetto sociale – riemergente dalla fase liquida – Settis propone «azioni popolari», probabilmente attorno alle crescenti «tracce di nuove comunità » che secondo Zygmunt Bauman si ritrovano «individualmente insieme» attorno alle nuove sensibilità – non solo estetiche, ma di nuovo etiche e pragmatiche – verso il paesaggio (su simili concezioni «strutturali» di estetica si sofferma Paolo D’Angelo in Estetica, Laterza 2011, pp. 234, euro 15).
Tra joie de vivre e politica
Del resto, nella recente riproposizione del suo Progetto Locale (Bollati Boringhieri 2010, pp. 334, euro 19) Alberto Magnaghi ricorda come in questo senso andasse l’esperienza – peraltro non conclusa – della Rete del Nuovo Municipio, che insieme ad altri network di istituzioni e soggettività locali, tentava di risostanziare le politiche istituzionali (non solo urbanistiche e paesaggistiche) attraverso l’incontro tra gestioni municipali «avanzate», ricerca innovativa sul territorio, associazionismi e movimenti di tutela e affermazione del bene comune. Una strada che, probabilmente per i caratteri della fase socio-politica che viviamo, si è rivelata assai – forse troppo – faticosa.
Oggi il gruppo «multidisciplinare» dei territorialisti passa forse «dalla mobilitazione diretta alla promozione dell’apprendimento sociale», come direbbe John Friedmann, proponendosi una fertilizzazione più lenta, di più lungo periodo, ma sempre dal basso, non solo di istituzioni politiche e tecnico-professionali, ma di settori crescenti di «società sensibile», tra cui dovrebbero annoverarsi le figure appartenenti alle moltissime tipologie di «difensori del territorio». Nel manifesto della giovanissima (dicembre 2010) Società dei Territorialisti si legge infatti: «Lo sviluppo della società locale si misura sia mediante la crescita del suo benessere, inteso come joie de vivre, felicità pubblica, buen vivir, sia attraverso la capacità di promuovere partecipazione politica, apertura dialogica verso i valori e le conoscenze degli altri; si misura infine con l’elaborazione di percorsi critici e alternativi…».
Gli aspetti più interessanti di questa «convergenza di specialismi diversi» vanno insomma ben oltre i tentativi di costruire azioni di tutela ambientale e dei beni comuni, per prospettare «orizzonti di futuro», possibile quadro scientifico di riferimento per un arcipelago ormai assai largo di associazioni, gruppi, comitati che, collegati spesso in «reti di reti», intendono predisporre strategie di blocco del degrado verso il ripristino della qualità sociale.
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