Dal web alla partecipazione. Anatomia del nuovo attivismo

by Editore | 25 Giugno 2011 6:29

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Su Europa e dintorni s’è rovesciata da tempo un’onda anomala, che pochi hanno colto anche se è forse la vera novità  politica di quest’inizio di secolo. A sollevarla sono gruppi che solo per inerzia chiamiamo “movimenti”, ma che meriterebbero un altro nome, dato che poco hanno a che fare con i gruppi (dal Movimento studentesco in poi) che in passato si sono chiamati così. Di questo fenomeno in Italia ci sono stati vari casi. È stato notato, ad esempio, che, nelle due ultime elezioni (il ballottaggio a Milano e Napoli e i quattro referendum), a vincere non sono stati i partiti ma proprio quella selva di movimenti e comitati che hanno sostenuto l’azione dei partiti pur tenendosene a distanza. Quei movimenti hanno alle spalle vari predecessori, che negli ultimi anni sono riusciti a richiamare folle nelle piazze quasi senza aspettarselo: i girotondini, le bandiere iridate, le donne di “Se non ora quando”, i movimenti per la costituzione, i no-global fino ai gruppi dei grillini. Se dapprima quelli sembravano fenomeni estemporanei, ora è chiaro che sono un trend della cultura politica della modernità . 
Anzitutto, l’onda è internazionale. Nelle rivolte in Egitto, in Tunisia e in tutto il lato sud del Mediterraneo la parte decisiva spetta a movimenti “leggeri”, di uomini, donne e perfino ragazzi, convocati, raccolti e messi in movimento con messaggi sms. Senza la “primavera del gelsomino” (come qualcuno l’ha chiamata), Tunisia e Egitto non si sarebbero liberati dei tiranni. In Ucraina il movimento arancione si è adoperato contro il regime poliziesco del paese; e il colore arancione è stato ripreso anche in Italia come simbolo di gruppi di sinistra per i quali il “rosso” non era più abbastanza espressivo. Gli “Indignados” madrileni, per parte loro, si sono riprodotti in tutta la Spagna e in Portogallo e sembrano destinati a influire ancora sulla Grande Politica.
Una delle proprietà  di questo fenomeno è la trasversalità . Nei movimenti si aggregano persone che hanno idee diverse sui grandi temi, dato che quel che le tiene insieme è una preoccupazione specifica, sia pure di ampia portata: i beni comuni, la dignità  delle donne, la difesa della Costituzione, la salvaguardia dell’ambiente. In Spagna, il movimento “¡Basta Ya!” (“Ora basta!”), tra i cui fondatori c’è anche Fernando Savater, si è battuto contro il terrorismo e per la definizione di un nuovo statuto di autonomia per i baschi; il gruppo francese “Ni putes ni soumises” (“Né puttane né schiave”) si adopera dal 2003 in nome della dignità  di genere. La varietà  degli obiettivi ha generato anche un gergo: il flash mob, ad esempio, è un movimento che colpisce e si dissolve, come il cartello “Riprendiamoci le spiagge”, formato da studenti e precari, che l’altro giorno ha invaso la marina di Ostia senza pagare il biglietto di ingresso. Si tratta insomma di una sorta di attivismo reticolare, che opera in modo leggero, rapido e percussivo (negli Usa è nata la parola “click activism”, per la capacità  di reazione data dal web).
Trasversali come sono, queste entità  esprimono stanchezza verso la forma-partito: quanto i partiti sono hard, lenti e distanti dalle esigenze della gente, tanto i movimenti vogliono essere soft, veloci e concreti. In sintesi: se i partiti sono l’antico hardware della politica, gli attivismi ne rappresentano il software. Da qui l’esigenza di auto-organizzarsi, senza gerarchie né troppe regole. Ci si può ritrovare la categoria di “leggerezza” di Calvino o la versione migliore della società  liquida di Bauman. L’estraneità  ai partiti è dovuta anche all’illusione, molto viva, di praticare una sorta di democrazia diretta: una specie di “co-produzione della cittadinanza” (come la chiama Robin Berjon) che duri al di là  delle pure elezioni e che permetta di tenere d’occhio le persone a cui viene conferita la delega a governare.
Ma dietro i meriti stanno una varietà  di punti deboli. Uno, cruciale, è la volatilità , inevitabile in ogni organizzazione soft e poco strutturata. La storia parla chiaro. Quasi dimenticato il movimento dei girotondi, uscito dal giro quello delle bandiere iridate. L’ultimo blog di “¡Basta Ya!” (www. bastaya. org) apre con un triste “Despedida” (“Congedo”): la mancanza di denaro e di persone che possano lavorare nel sito giustifica la chiusura dopo diversi anni. 
Per orientarsi in questa foresta sono nati vari siti, come il francese “Mouvements”, ricchissimo di dati. D’altro canto, l’uso della rete è un carattere cruciale di questo trend. Siccome i movimenti non hanno indirizzo né sede, non hanno soci né fondi, non hanno segreterie né archivi, la rete è la loro casa: portali fatti alla svelta, convocazioni lanciate all’istante per mail o sms, liste di simpatizzanti raccolte con Facebook, senza carta, francobolli o servizi postali. Nella storia pullulano del resto i casi di regimi e forme politiche che si sono costruiti sfruttando i media del tempo: l’uso della radio e del cinema contribuì in modo decisivo all’affermazione di fascismo, nazismo e stalinismo. Degli effetti politici della televisione paghiamo ancora lo scotto. Ma ora il medium in gioco non è più unidirezionale, ma è interattivo, istantaneo e soprattutto “sociale” e dilagante. Per questo non sappiamo ancora che effetti la rete potrà  avere sulla nascita di nuovi paradigmi culturali e politici, ma sarebbe bene che a questo tema si dedicassero accurate previsioni, soprattutto in un paese come l’Italia, dove per il Palazzo la rete è solo un divertente gadget per perditempo.
Il fenomeno dei movimenti non interpella solo i cittadini, che vi trovano nuovi modi di esprimersi e di farsi sentire. Interessa ancora di più i partiti veri e propri e le istituzioni in generale: i movimenti sono infatti fortemente anti-partito e contengono una rischiosa istanza di “uguaglianza estrema” (come diceva Montesquieu). Anche se incorporano ovvi impulsi di leadership personale, per lo più aggregano folle che hanno il dente avvelenato con le metodiche del partito: nomenklature, correnti, privilegi, tatticismi, rituali, prudenze, ecc. Possono senza dubbio servire come elettrochoc per partiti in affanno (come nel caso del Pd in Lombardia), ma il loro rapporto coi partiti è insieme di attrazione e repulsione. Se riesce a non dissolversi, il movimento prima o poi presenta il conto, con il rischio di trasformarsi in partito o, peggio ancora, in frazione (come accadde coi Verdi in Germania) o in lobby. Altrimenti, il movimento, se è colto da “impazienza verso i limiti” (l’espressione è di Dominique Schnapper), può diventare un fattore di “regresso democratico”, insomma un pericolo. Dall’altro lato, i partiti, pesanti e ormai sordi perché hanno perduto le antenne per “sentire” le vibrazioni dello Zeitgeist, non possono ignorare il nuovo fenomeno, dato che i movimenti, operando a livello di terra, percepiscono umori, emozioni e bisogni della gente, anche se non sanno trasformarli in progetti e proposte, e tantomeno gestire i propri eventuali successi. 
In ogni caso i partiti e le istituzioni sono avvisati: attenti, un movimento potrebbe seppellirvi!

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