Così Redford ci insegna come finire una guerra

by Editore | 22 Giugno 2011 6:44

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Di questo film di Redford, avevo paura. Mi spaventava il titolo, The Conspirator, la cospiratrice, (una donna) in un tempo come il nostro infestato già  da abbastanza complottismi, dietrologie, paranoie. Non sarà  per caso un’edizione ottocentesca del «chi ha ucciso Kennedy?» Per favore.
Temevo un po’ anche il grande Robert Redford, la sua debolezza per la militanza, la sua ansia di lanciare messaggi politicamente corretti ed ecologicamente appassionati. E mi inquietava l’argomento, il «day after» della Guerra Civile americana e dell’assassinio di Abramo Lincoln, con il fuoco di rancori e revisionismi che da 150 anni continuano a ribollire nel crogiolo di una tragedia mai davvero spenta. Che altro avrebbe potuto dire l’attore della Stangata, il «Sundance Kid», il «Candidato», sulla Guerra Civile e sull’assassinio di un’icona sacra come Lincoln, che non fosse stato detto?
Credevo di sapere già  tutto. Per decenni avevo lavorato praticamente sul set del film, a pochi passi dal Teatro Ford di Washington sull’11esima Strada, rimasto come era la sera del 14 aprile 1865, quando l’attore John Wilkes Booth raggiunse con un colpo alla nuca Lincoln nel palco. Il teatro funziona ancora, come museo per rappresentazioni storiche. Soltanto la casupola coloniale di fronte, dove viveva e affittava camere la «Cospiratrice» non c’è più.
Ma il vecchio Redford, dall’alto dei suoi 75 anni e dal basso di un minuscolo budget per gli standard del cinema americano, 18 milioni di dollari, mi ha fregato. La storia che racconta, dal momento in cui il corpo di Lincoln viene portato via in fretta dal teatro (morirà  il mattino dopo) ma senza mai mostrarne il volto, ai titoli di coda, può contenere tutti i messaggi e le allusioni che vorrete trovarci, compresi alcuni diretti vistosamente al cuore delle Abu Grahib, di Guantanamo, della «ragion di stato» dei Bush e ai Cheney, nel panico impotente del dopo 11 settembre. Ma non è questa la verità  che The Conspirator vuole dirci. E’ come possa crearsi un rapporto umano, non sentimentale, non amoroso, non sessuale, semplicemente umano, fra due persone, nascere un vincolo formidabile fra un uomo di 28 anni e una donna ben oltre gli «anta» che avevano giurato di odiarsi seicentomila volte, quanti erano stati i fratelli coltelli del Nord e del Sud uccisi dalla Guerra.
Nella penombra impenetrabile di una fotografia molto fané, da vecchi dagherrotipi, molto europea e poco americana, fra la signora Mary Surrat affittacamere che ospitò i cospiratori, dichiaratamente sudista, e Frederick Aiken, il legale reduce di guerra costretto inorridito a difendere una delle «assassine» di Lincoln, si accende la luce dell’umanità . Sotto il fumo del tribunale asfissiato dai sigari, sopra i pagliericci delle segrete dove lei è gettata per l’accusa – mai dimostrata – di avere collaborato con i terroristi, nella pensione illuminata a petrolio, James McAvoy e una meravigliosamente appassita Robin Wright, sempre nel nero vedovile della propria autocondanna al silenzio, scoprono che l’umanità , e la sua espressione civile più alta, la ricerca di giustizia, possono sopravvivere alle guerre e alla paura.
Il finale è già  scritto, perché lo volle così un ministro della Guerra con la figura voce del grande Kevin Kline: «La sopravvivenza di una nazione è più importante della vita di una donna». Eppure, la passione degli attori, che credono a quello che fanno e dicono, il ritmo da pièce teatrale, la delicatezza che evita di disegnare con la solita accetta hollywoodiana i «buoni» e i «cattivi», creano una suspence che il fatto storico non avrebbe retto, perché già  noto. Ti scopri a fare il tifo per l’avvocatino risucchiato dalla voglia di equità , se non di giustizia, a sperare per quella testona texana della sua cliente, che condanna se stessa per proteggere il figlio, ma si tifa senza davvero odiare i generali e neppure il Ministro della Guerra, il «Donald Rumsfeld» del 1865, troppo persuaso di fare il bene della nazione per essere spregevole.
Ed è strano che il regista, Redford ceda alla tentazione (ma forse non aveva semplicemente i soldi) di ripulire dai fumi e dalla penombra proprio quella Washington narrata in esterni, come una città  linda e pulitina, mentre in quei primi giorni di dopoguerra la capitale era uno zoo umano, un bivacco di soldati e di feriti spesso ospitati e amputati dentro la Casa Bianca, un paesotto travolto da migliaia di schiavi neri liberati e fuggiti dal Sud. Infatti non è Washington, quella che si vede in esterni, ma Savannah, la compita e quieta città  della Georgia, con le sue strade ortogonali, ben diversa dal caos washingtoniano. E’ come se il mondo esterno non interessasse, anzi, come se potesse interferire con il panorama claustrofobico eppure infinito dell’umanità  che si fa largo in un carcere, in un tribunale, fino alle assi del patibolo. E’ allora, nel momento in cui Frederick e Mary finalmente si conoscono e riconoscono, non nella casetta dove il generalissimo sudista Lee aveva appena firmato la resa, che anche questa guerra, come tutte le guerre, può finire.

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