Così il libro di Ammaniti è diventato un longseller

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L’idea di celebrazione non si addice ad Ammaniti. Troppo irridente, lui, troppo maramaldesco, troppo tentato di mandare a Patrasso la nobile retorica celebrativa. Neanche l’idea di classico si addice ad Ammaniti, troppo sbilenco e grottesco, troppo lontano e alieno dal canone, dalla misura, dall’equilibrio, da ogni intento normativo. Almeno in apparenza.
Eppure, a dieci anni dalla pubblicazione, ci si trova a celebrare (appunto) come un classico (appunto) il più breve e il più lineare dei romanzi di Ammaniti, Io non ho paura. Che in questi dieci anni non solo ha toccato picchi di vendita, per conto proprio e in compagnia del film che ne è stato tratto, ma, cosa persino più importante, ha messo radici e si è impiantato nel vero terreno del classico, cioè nella scuola. Come è avvenuta questa trasformazione, non un degrado, come ci si aspetterebbe da Ammaniti che tanti ce ne ha descritti, ma al contrario un’assunzione nell’empireo della letteratura? C’è qualcosa di familiare nel paesaggio, del tutto non determinato, in cui si svolge Io non ho paura. Le letterali quattro case più villa cadente del borgo, la strada dritta attraverso i campi di grano tutti gialli, giallissimi, la grande collina tonda, gialla anche lei. Dietro, in mezzo al giallo, la valletta tutta verde, in mezzo al verde la casa diroccata e in mezzo alla casa il buco nero.
Terribile. Ma e’ il disegno di un bambino, un foglio di carta disegnato con i pastelli colorati, per questo ci è così familiare. Senza averlo mai visto, lo abbiamo già  visto infinite volte, lo conosciamo benissimo. E’ uno spazio più reale della realtà  e insieme più fiabesco della fiaba, è lo spazio infantile. Racchiusa in questi confini, la storia che Ammaniti ci racconta oscilla continuamente tra la realtà  e la fiaba, dove la realtà  fornisce la punta emotiva e la fiaba ne attutisce l’effetto, rende meno cruda la ferita. Il paesaggio del romanzo, che è tutto un paesaggio interiore, pulsa seguendo l’onda interna del protagonista, ma nello stesso tempo mette al riparo il lettore, lo rassicura, gli rende sopportabile l’atrocità  delle cose.
C’è qualche cosa d’altro di familiare, di stranamente familiare, a parte il paesaggio. Ed è l’universo degli adulti, gli abitatori delle quattro case, i genitori di Michele, il protagonista, e dei bambini suoi sodali. Fatta eccezione per il vecchio gangster Sergio Materia, straordinaria mistura di Cormac McCarthy e de I soliti ignoti, e per il ventenne Felice, piovuto direttamente dai fumetti con i suoi dentini da latte e il suo sorriso da coccodrillo appena nato, tutti gli altri sono gente comune, common people in canottiera, pantaloncini e sottoveste, amanti delle gondole di plastica sul televisore e delle sigarette Milde Sorte. Sono, di fatto, una banda di criminali feroci, che contemplano seduti intorno a un tavolo la possibilità  di uccidere un bambino a sangue freddo, preoccupati solo dell’ergastolo, non della cosa in sé. E proprio qui sta la loro familiarità : sono simili, sono parenti stretti, dell’infinita serie di assassini e assassine seduti nei loro tinelli, infagottati nelle loro felpe e nei loro jeans sformati, cui la televisione ci ha abituato in questi anni. Tutti quelli con solo i nomi di persona, tutte le zie tali e gli zii talaltri. Solo che dieci anni fa, quando Io non ho paura fu pubblicato, non ce n’erano così tanti. Ancora una volta la realtà  ha imitato la fantasia, la cronaca si è ispirata alla letteratura.
Tanto vaghi sono i luoghi, la geografia, lo spazio, tanto precisi sono gli anni, il tempo. L’azione si svolge nell’estate del 1978, quando Michele ha nove anni, e viene raccontata ventidue anni dopo, nel 2000, da un Michele a questo punto trentunenne. Perché tanta esattezza? In primo luogo per rassicurare il lettore: Michele è vivo, dunque è sopravvissuto, dunque si può leggere la sua storia d’allora con animo sollevato. Ma soprattutto per distanziarsi da quella vicenda, per potere nello stesso tempo usare la prima persona, ma alternare insensibilmente l’io narrante bambino con l’io narrante adulto. Per paradosso la precisione del tempo assolve alla stessa funzione dell’indeterminatezza dello spazio. Allontana, e allontanando permette di controllare una materia così incandescente.
Sarà  un caso, ma la prima delle Fiabe italiane di Calvino si intitola “Giovannin senza paura”. E la paura negata ritorna nella spavalda dichiarazione che fa da titolo al romanzo di Ammaniti. La fiaba di Calvino è una fiaba di magia e Giovannino, che assiste combattivo a uno squartamento e a una ricomposizione magica, è davvero senza paura. Ma per il Michele di Ammaniti è vero esattamente il contrario. La paura è il soggetto, la paura è il tema e il filo conduttore del libro, la paura si insinua, cresce e si addensa come le nubi che corrono verso il temporale finale. Ed è una paura terribile perché fatta non solo di timore dei pericoli esterni, che pure ci sono in buon numero, ma soprattutto della crescente consapevolezza che i propri cari sono malvagi, che sotto l’apparente normalità  sono loro i mostri.
La paura non c’entra con la fiaba, c’entra con la tragedia, è la componente costitutiva della tragedia. Arriviamo così a comprendere il carattere proprio della narrazione di Ammaniti, una narrazione che allontanata nel tempo e avvolta nello spazio della fiaba ha al suo centro un nucleo tragico: una fiaba tragica, dunque, una tragedia fiabesca. Non una fiaba sentimentale, come Il piccolo principe. E della tragedia ha anche quello che secondo Aristotele, maestro di tutti noi, è il secondo elemento costitutivo, la pietà . Mano mano che i criminali si rivelano per quel che sono, finiscono per rivelarlo anche a se stessi e in questo denudamento emerge la loro miseria, la loro debolezza, la loro pietosa umanità . Michele lo capirà  nel momento culminante, quando vedrà  nel padre amatissimo che si appresta a sparargli, avendolo scambiato per l’ostaggio, quello che il padre è sempre stato, un perdente, ma un perdente pietoso, per cui provare pietà .
Quasi tutte le opere di Ammaniti, da L’ultimo compleanno dell’umanità  a Come Dio comanda a Che la festa cominci, corrono precipitando verso una catastrofe finale che assume spesso le proporzioni di un cataclisma, straripa dal letto della verosimiglianza e travolge tutto nell’universale gorgo del grottesco. In Io non ho paura la catastrofe è secca e sintetica, c’è nel senso letterale del capovolgimento, ma nulla più. Si tratta di una doppia, e simmetrica, inversione di ruoli. Nel momento in cui il padre cessa di essere il padre e diventa l’uomo nero, il figlio cessa di essere il figlio e diventa l’ostaggio, dunque la vittima. Nello stesso momento il titolo del libro cessa di essere solo un modo per farsi coraggio e diventa vero: mentre si scambia con l’altro bambino, il suo alter ego, l’ostaggio, Michele è davvero oltre la paura, non ha più paura. La grandezza profonda del libro è tutta qui, in questo gesto oblativo di un bambino di nove anni pronto a offrirsi in sacrificio (anche se poi tutto finirà  bene) per un senso di giustizia, per compensare l’iniquità  del padre. Ed è l’invenzione di questa piccola Antigone laziale, non retorica e velata d’ironia, che trasforma Io non ho paura in un prodigio di equilibrio e di misura narrativa, lo fa rientrare, definitivamente, nella poco ammanitiana categoria del classico e ne giustifica da ultimo la celebrazione.


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