Contratti, il coraggio di guardare avanti

by Sergio Segio | 30 Giugno 2011 7:42

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Le parti sociali mostrano di avere capito la gravità  del momento dando un segnale importante per chi vuole investire nel nostro paese. È un gesto di responsabilità  che contrasta con il comportamento di quei politici che ci stanno condannando a pagare tasse più alte chiedendo di abbassare le imposte e opponendosi a ogni taglio della spesa pubblica, con l’unico risultato di far aumentare gli interessi sul debito pubblico. Contrasta ancor di più con lo scherzare col fuoco di un governo che continua a non fare nulla per la crescita del Paese e che rinvia ai futuri governi l’onere politico dell’aggiustamento fiscale.
Le parti sociali, come è giusto che fosse, hanno deciso in piena autonomia, senza interferenze della politica. Significativo che il ministro del Welfare abbia commentato un accordo che torna ad affiancare le sigle di Cgil, Cisl e Uil rimarcando “il pluralismo sindacale accentuato” presente nel nostro paese. La costante nelle scelte di Maurizio Sacconi, prima da sottosegretario poi da ministro, è stato il tentativo di dividere il sindacato. Si tratta di una politica miope e suicida soprattutto quando sono in gioco le regole della contrattazione che devono forzatamente essere condivise da tutti i maggiori agenti contrattuali. Come sottolineato a suo tempo su questo giornale, il protocollo siglato nel gennaio del 2009 sotto il diktat del ministro del Welfare nasceva già  morto, proprio perché escludeva la Cgil. Era un’esclusione voluta, perché non cercava un’intesa su entrambi gli aspetti, livelli della contrattazione e rappresentanze sindacali, trovando un equilibrio fra le richieste di Cisl e Uil (che puntano fortemente sul decentramento della contrattazione) e Cgil (che, da sindacato maggioritario, è sempre stata favorevole a far valere i numeri degli iscritti). Per fortuna questa volta Sacconi è rimasto fuori dalla trattativa.
L’accordo siglato ieri rafforza il peso della contrattazione decentrata, azienda per azienda. Lo fa stabilendo che i contratti nazionali possano contenere “clausole d’uscita” come quelle in vigore ormai da vent’anni in Germania. Offrono alla contrattazione aziendale la possibilità  di derogare ai minimi salariali fissati dalla contrattazione nazionale «al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico e occupazionale dell’impresa». È la clausola che ha permesso alle imprese dell’Est della Germania di contenere le emorragie occupazionali dopo l’unificazione e che, durante la Grande Recessione ha permesso di evitare massicce perdite di posti di lavoro (in Germania la disoccupazione è addirittura diminuita nel 2009!) grazie a scambi virtuosi fra, da una parte, riduzioni di orari e salari e, dall’altra, mantenimento dei livelli occupazionali. Questa innovazione esplicitamente introdotta in un accordo interconfederale è molto importante in un paese come il nostro dove c’è moltissima eterogeneità  nell’efficienza delle imprese: alcune si possono permettere di pagare salari molto più alti di quelli fissati dal contratto nazionale, mentre altre vengono sospinte verso il sommerso da minimi retributivi troppo alti per gli standard di produttività  che riescono a conseguire.
L’accordo compie passi in avanti significativi anche sul piano dell’esigibilità  dei contratti, vale a dire della natura vincolante degli impegni che il sindacato può prendere in sede di negoziato con i datori di lavoro. È il nodo emerso nei casi di Pomigliano, Mirafiori e Garlasco dove un sindacato diviso non poteva garantire il rispetto da parte di tutti degli accordi presi prima dell’attuazione del piano di investimenti proposto dall’azienda. Un sindacato che non può prendere impegni vincolanti non può negoziare e un investitore non accetterà  mai di mettere tanti soldi in un’azienda se sa che l’accordo raggiunto può essere rimesso in discussione dopo che l’investimento è stato attuato. L’accordo siglato martedì definisce (pur con una certa macchinosità ) le rappresentanze sindacali e le vincola tutte al rispetto degli impegni sottoscritti dalla maggioranza. Le regole sono inevitabilmente diverse per le imprese in cui i contratti sono negoziati da rappresentanti dei lavoratori (aziende con Rappresentanze sindacali unitarie, Rsu, votate dai lavoratori) e in quelle dove esistono soltanto delegati sindacali (Rappresentanze sindacali d’azienda, Rsa) scelti dagli iscritti anziché da tutti i lavoratori. Nel primo caso (si tratta soprattutto di aziende nell’industria ad eccezione del metalmeccanico) basterà  l’accordo della maggioranza della Rsu per imporre il rispetto dell’accordo per tutti. Nelle aziende con Rsa per rendere il contratto vincolante per tutti ci vorrà  l’accordo di tutte e tre – Cgil, Cisl e Uil – oppure un referendum, presenti almeno il 50 per cento dei lavoratori. Se i sindacati in minoranza dovranno così rispettare le scelte della maggioranza, non per questo perderanno il diritto ad avere diritto di cittadinanza in azienda, come invece accaduto a Mirafiori.
Non è un accordo che guarda al caso Fiat: varrà  solo d’ora in poi e non retroattivamente come chiedeva il Lingotto. Ma, come si è visto, tiene conto delle lezioni di Pomigliano e Mirafiori. Dovrebbe anche evitare di ideologizzare il confronto come avvenuto, spesso sulla pelle dei lavoratori, in quei casi. Nell’affrontare il nodo delicato e per lunghissimo tempo irrisolto della democrazia sindacale, può stimolare maggiori investimenti in Italia e diffondere regole retributive che leghino più strettamente salari e produttività , stimolando la crescita del paese. Bene che i contratti nazionali che verranno d’ora in poi siglati recepiscano i principi di questo accordo interconfederale, a partire dalle clausole d’uscita, e riconoscano che ci sono tante aziende in cui non ci sono né Rsu, né Rsa. Per queste aziende dovrà  essere direttamente il contratto nazionale a definire regole che permettano di legare salari e produttività , salvando posti di lavoro e permettendo, nelle imprese più efficienti che non hanno contrattazione aziendale, incrementi dei salari senza dover ricorrere alla contrattazione individuale.

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