Cgil al bivio: sarebbe assurdo oggi rinunciare ai referendum

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L’impressione è pessima. Il confronto tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil – che martedì potrebbe chiudersi con un «avviso comune» tra le parti sociali, che il governo potrebbe poi recepire in una legge per «blindare» anche giuridicamente i nuovi assetti – è arrivato ad un punto che tutti i protagonisti definiscono «molto positivo». Quasi fatto. Siccome si partiva da distanze siderali, con alle spalle tre anni di «accordi separati» – a partire da quello, nel gennaio 2009, sulla «riforma del modello contrattuale», per arrivare a quelli di metalmeccanici, pubblico impiego e commercio (in pratica la metà  dei lavoratori italiani) – sarebbe interessante sapere chi è che ha fatto dei passi indietro. A sentire Marcegaglia, Bonanni e Angeletti non sono loro.
I problemi sul tavolo: i criteri per misurare la rappresentatività  di ogni sindacato, le modalità  per validare qualsiasi tipo di accordo (maggioranza dei sindacati o dei lavoratori?), l’«esigibilità » degli accordi stessi (in pratica, il divieto di sciopero) e infine la possibilità  che i contratti aziendali siano alternativi a quelli nazionali di categoria. 
Non sono temi laterali, ma costituiscono il cuore stesso delle relazioni industriali: chi rappresenta davvero la volontà  dei lavoratori? quali organizzazioni sono ammesse alla contrattazione? si può o no «derogare» a un accordo e chi può deciderlo? i lavoratori possono votare o no sui contratti che decidono le loro condizioni di lavoro, e quindi di vita?
Il problema – gravissimo – è che sul merito non si sa quasi nulla. Nemmeno i dirigenti Cgil, i membri del Direttivo nazionale che domani si riuniranno per discuterne, conoscono i «punti di caduta» su cui le parti hanno «trovato la quadra». Ma, stando a quanto è trapelato, di diritto di voto dei lavoratori non se ne parla proprio. È il punto più scabroso, in casa Cgil, perché nella bozza di proposta avanzata dalla segretaria, Susanna Camusso, e su cui aveva ricevuto dal Direttivo il mandato a trattare, il referendum – sia pure in una formula oscura e contorta – era previsto.
Ma se ai lavoratori viene sottratto persino il diritto democratico di esprimersi su qualcosa che li obbliga – un contratto è un vincolo anche personale – ne discendono a cascata altre gravissime conseguenze. La prima è che chi tratta lo fa a nome proprio, ma «gli obblighi» ricadono sulle spalle di chi sta al lavoro. «E la Cgil – ricorda Gianni Rinaldini, coordinatore dell’area interna “La Cgil che vogliamo” – non ha mai istituzionalizzato che si potessero fare accordi senza passarli al vaglio dei lavoratori; sarebbe clamoroso».
Ne è consapevole anche Giuliano Cazzola, ex dirigente Cgil di area craxiana, ora deputato berlusconiano, che all’AdnKronos (agenzia di stampa ex socialista craxiana) ha spiegato: «nella Cgil si avverte un mutamento significativo di linea politica». Con ovvie lodi per la Camusso – casualmente cresciuta nelle fila craxiane – «se questa tendenza sarà  confermata, non sarà  ricordata solo come la prima donna chiamata a dirigere il più grande sindacato italiano, ma le sarà  riconosciuto il diritto di scrivere il suo nome a fianco di quello dei dirigenti storici che seppero riportare la Cgil al centro dell’iniziativa sindacale contro le tentazioni all’autoisolamento e all’emarginazione”. 
In assenza di «merito», l’unico «successo» che la Cgil potrebbe vantare sarebbe il ritorno ai tavoli dove «si firma». Ma, con una manovra da 45 miliardi che sta per cadere loro addosso, e dopo un referendum che ha rivelato la potenza della partecipazione popolare, una firma sotto un testo che ne esclude la possibilità  nel luogo dove si passano almeno otto ore al giorno sarebbe qualcosa più che un beffa. Un insulto. Domani la scelta 
Il Direttivo della Cgil deciderà  se firmare con Marcegaglia, Bonanni e Angeletti. Dopo i referendum di giugno, si rischia un passo indietro sulla democrazia nei luoghi di lavoro


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