Cervelli in fuga

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PARIGI – L’ impressione è quella di essere osservati. Scrutati. Lo sguardo di Luc Montagnier si fissa su cose che mai, a un comune mortale, verrebbe in mente di notare. Mentre parla percorre la pelle del viso di chi ha davanti, ne mette a fuoco i capelli, e lo sguardo può scendere fino alle mani, le dita, le unghie. Un esame rapido, ma completo. Deformazione professionale, professore? La domanda lo fa ridere (e non è facile). «Un po’» ammette. Incontriamo Luc Montagnier nel palazzo dell’Unesco, dal 1993 sede della sua Fondazione mondiale di ricerca e prevenzione dell’Aids. Da quasi mezzo secolo il professore studia il dna umano. Lo studia da ben prima di scoprire, nell ’83, il virus dell’Aids e di meritare per questo il Premio Nobel per la medicina (nel 2008, insieme alla collega Franà§oise Barré-Sinoussi).

Nato nel ’32 a Chabris, un paesotto del Berry (a sud della Loira), l’infanzia di Luc Montagnier scorre serena. È figlio unico, amatissimo. Ma a cinque anni, mentre attraversa una strada, un’automobile spunta all’improvviso a tutta velocità . Colpisce il bambino e lo scaraventa lontano. Sarà  il primo dei due traumi dell’infanzia dello scienziato (il secondo sarà  il bombardamento della sua casa nel ’44 da parte degli Alleati). Dopo due giorni di coma il piccolo Luc si risveglia come nulla fosse, una nuova vita. La cicatrice a forma di stellina al centro della guancia sinistra sarà  per sempre memoria di quell’incidente. Anche oggi è il suo “segno particolare”. Di quei due giorni nel sonno profondo del coma il professore non ricorda nulla. «C’è chi racconta di avere visto la luce, o parenti trapassati. Io niente». Ma la ragione del suo agnosticismo è da cercare soprattutto nel bombardamento del ’44. «In quel momento conobbi una paura viscerale, la paura di sparire. E in quel momento l’idea di Dio cominciò ad abbandonarmi» racconta Montagnier in Le Nobel et le moine (“Il Nobel e il monaco”), libro in forma di dialogo con padre Michel Niaussat, monaco cistercense, e trascritto nel 2009 da Philippe Harrouard nel 2009 ma mai pubblicato in Italia.
Non si porrà  quindi scrupoli religiosi nell’affrontare problemi etici legati alla medicina. «La religione non c’entra. La religione è fatta di dogmi; nella mia professione i dogmi non esistono. Tutto può cambiare. Ma se parliamo di etica posso dirle che sono contrario alle manipolazioni del genoma. Bisogna essere molto prudenti perché si mette mano a una cosa che ha impiegato milioni di anni per costituirsi. Ed è per questo che sono contrario a les mères porteuses (l’utero in affitto, ndr.). C’è una ragione biologica: l’uovo fecondato si fissa sulle pareti di un utero estraneo. Anche se il bambino nascerà  sano non sappiamo ciò che accadrà  negli anni, nelle future generazioni. E c’è anche una ragione etica in senso stretto: si dà  vita per denaro, si crea un mercato attorno a un fatto così prodigioso».
Il nostro taccuino è fitto di domande e di argomenti da affrontare. Il raggio di ricerca di Luc Montagnier è molto esteso. E così la cronaca della sua vita. Potremmo parlare con lui di virologia, di oncologia, dell’invecchiamento (il professore è quasi certo che, grazie alle scoperte scientifiche, in futuro si potrà  arrivare sani fino ai centoventi anni), di molecole, di batteri, del testa a testa con il ricercatore americano Robert Gallo nel diritto – poi ottenuto – di aggiudicarsi la scoperta del virus HIV I (poi anche dell’isolamento dell’HIV II, più diffuso in Africa); gli si potrebbe chiedere della sua delusione per essere stato mandato in pensione ai regolamentari 65 anni dall’Istituto Pasteur, lui che aveva fatto una delle scoperte del secolo; farlo parlare della sua assoluta fiducia verso gli antiossidanti (papaya fermentata in testa, ma anche il glutathion o gli omega3) e dell’incontro con Giovanni Paolo II al quale portò, come rimedio al Parkinson, proprio le bustine di papaya. Ma sono cose già  molto note, scritte in La scienza ci guarirà , il suo bel libro uscito da noi nel 2009. Meglio dunque guardare avanti.
Luc Montagnier parla a voce bassa, ogni tanto tossisce. È appena tornato dalla Cina. Dopo aver pubblicato due articoli sulla rivista scientifica Interdisciplinary sciences della quale presiede il comitato editoriale e il cui editore è cinese, nel novembre scorso l’università  Jiaotong di Shanghai gli ha messo a disposizione laboratori e ricercatori. Montagnier viaggia molto (tra Cina, Stati Uniti, e Africa, in particolare Camerun dove nel 2006, in collaborazione con l’Unesco, con la Cooperazione Italiana e con il professor Vittorio Colizzi dell’Università  Tor Vergata di Roma ha inaugurato un centro internazionale di ricerca sull’Aids), ma fa sempre base a Parigi, dove ha sede la sua Fondazione. Ma il problema è sempre la mancanza di stanziamenti validi per la ricerca. Anche quando si tratta di aiutare un Nobel. «Sono un po’ preoccupato per il centro di Yaounde. Il progetto italiano è finito nel 2010 e con Colizzi, direttore ad interim, abbiamo chiesto al governo di Roma di finanziare un direttore scientifico. Per ora nessuna risposta». Impossibile persino la semplice organizzazione di un grande evento musicale a Verona, programmato per la metà  di giugno con il titolo Una notte per l’Africa (al quale la Rai aveva già  dato la sua disponibilità ). La Fondazione di Montagnier aveva ottenuto dal sindaco l’utilizzazione dell’Arena, ma poi i responsabili della programmazione non si sono più fatti vivi.
Pur essendo l’autore della scoperta del secolo (scorso) Luc Montagnier resta uno scienziato “scomodo”, uno che pensa con la sua testa, anche a rischio di apparire eccentrico, di osare l’inosabile. «Perché crede che io abbia pubblicato i miei esperimenti in corso su una rivista scientifica cinese? Perché quelle europee o americane avrebbero tirato fuori le pistole». Avrebbero gridato allo scandalo. Da alcuni anni infatti il professore basa i suoi studi e i suoi esperimenti sulla teoria della «memoria dell’acqua». La applica a tutte le sue ricerche. Scoperta nel 1988 da Jacques Benveniste – lo scienziato francese morto nel 2004 e al centro di un violento discredito scientifico – questa teoria suppone che l’acqua conservi la memoria delle sostanze che ha contenuto; che la conservi anche dopo infinite diluizioni e quindi dopo la scomparsa di queste sostanze dalla soluzione acquosa. È il principio dell’omeopatia. In alte diluizioni acquose il dna provocherebbe delle onde elettromagnetiche, aprendo così la strada a un sistema rivelatore, altamente sensibile, di infezioni batteriche croniche umane e animali. «Tempo fa avevo fatto un progetto, ma il Consiglio superiore della ricerca lo ha rifiutato. Appena sentono il nome di Benveniste sono presi da un terrore intellettuale. È morto senza aver portato a termine il suo lavoro, rifiutato dai comitati scientifici, anche francesi. E allora mi viene in mente Galileo. Solo che in questo caso non si tratta di oscurantismo religioso, ma scientifico. Perché quando sconvolgi le concezioni comuni, non appena cambi un paradigma, sono guai. Quando chiedevano a Max Plant, Nobel tedesco per la fisica, come aveva fatto a convincere il mondo scientifico, i colleghi, della sua Teoria dei Quanti, “semplice”, rispondeva, “ho aspettato che fossero morti tutti”».
Senza arrivare a questi estremi, professore: quanto si dovrà  aspettare per il vaccino dell’Aids? «Perché vuole un vaccino?». Come perché? Lei non lo vorrebbe? «Per quanto sicuro possa essere, un vaccino non funziona mai al cento per cento. Senza contare gli effetti secondari. E tutti gli infettati di oggi, tutti quei bambini, li facciamo morire? Sono già  malati. A che cosa servirebbe loro un vaccino? Io penso piuttosto a un vaccino terapeutico che possa aiutare i malati a sbarazzarsi del virus. Ci sono regioni in Cina in cui il tasso di infezione è altissimo». Questo significa che nel suo laboratorio di Shanghai ci stanno già  lavorando…? «Per ora le notizie non sono incoraggianti, ma abbiamo trovato delle “elites controleurs”, cioè persone infette ma non malate. Le ricerche sono in corso e la risposta è che si tratti di un fatto genetico: quelle “elites” hanno un sistema genetico che blocca il virus rendendole immuni. Posso dire che un progetto di vaccino dorme in certe scatole ma, prima di divulgare la notizia, andrà  pubblicato su una rivista scientifica». Un’ultima domanda professore: come faremo a vivere fino a centoventi anni? «Stando lontani dallo stress, facendo una moderata attività  fisica, mangiando cibo sano, facendosi aiutare dagli antiossidanti. E – cosa che da sempre dico ai miei figli – lavandosi il più possibile le mani: i nostri insospettabili nemici, i trasmettitori più pericolosi di malattie infettive, sono le maniglie di uso comune, nel metrò, sugli autobus, nei bagni pubblici».

 


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