Caro Viale, la decrescita è necessaria

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Chi tiene il coltello per il manico (le istituzioni finanziarie) fa le porzioni che vuole e quelle destinate a remunerare i capitali investiti sono sempre le più grandi, per riuscire a saziare i giocatori più voraci. Ma oggi c’è dell’altro: di farina per impastare torte sempre più grandi non ce n’è più. I “fattori” di produzione fondamentali sono sempre meno disponibili. Per alimentare la crescita non rimane che drogarla stampando carta moneta, nell’attesa che scoppi la prossima bolla.

Tutto questo scrive Viale, ma si sente in dovere di distinguersi dagli «obiettori della crescita» (come li chiama Serge Latouche) poiché la decrescita sarebbe «un concetto povero di contenti, inutilizzabile se non impresentabile nella situazione di crisi, ambiguo…» e via apostrofando. Già  altri amici e compagni di tante lotte (Pietro Bevilacqua, Roberto Mancini…) ci hanno sollecitati a cambiare lessico. Attaccarsi a una parola ostinatamente, per di più non amata, può apparire stupido. Ma in questo caso a me sembra necessario e utile insistere. Lo abbiamo fatto con un libro (Decrescita. Idee per una civiltà  post-sviluppista, Sismondi editore, Treviso) e lo faremo ancora meglio con la III Conferenza internazionale sulla decrescita economica per la sostenibilità  ecologica e l’equità  sociale che svolgeremo a Venezia dal 19 al 23 settembre del 2012.
Perché? Primo, perché in natura un modello di crescita illimitato, lineare, esponenziale non esiste se non per le formazioni cancerogene (rimando d’obbligo a Fritjof Capra). Quindi decrescita significa propriamente e in prima istanza diminuzione dei flussi di materia e di energia impegnati nei cicli produttivi e di consumo (rimando d’obbligo al programma elettorale di Europe Ecologie). Ma se ci fermassimo qui, alla sostenibilità , alla green economy, alle clean tec e, da ultimo, alla blue economy di Gunter Pauli prenderemmo un colossale abbaglio: non terremmo conto delle “trappole tecnologiche” e dell’ “effetto rimbalzo” sui consumi che genera la sola efficientizzazione degli apparati produttivi (il rimando agli studi di Martinez Aller è d’obbligo). In altre parole, se i risparmi che si realizzano grazie alle innovazioni e alle nuove tecnologie servono per moltiplicare i consumi, il bilancio globale sarà  crescente, cioè negativo per la salute del pianeta e di ogni essere vivente, specie se collocato sui rami bassi della gerarchia sociale. Scriveva qualche tempo fa sul manifesto Giorgio Ruffolo: «L’accumulazione, che è la logica del capitalismo, è per natura illimitata. Di fatto una logica impossibile, quindi illogica, dissennata».
Io credo che il termine decrescita infastidisca proprio perché colpisce il cuore del problema che molti dei critici della decrescita preferiscono non affrontare, credendolo “impresentabile” per la radicalità  del cambiamento richiesto: immaginare e rivendicare una società  fuori dal capitalismo e scegliere comportamenti, abitudini, stili di vita improntati al saper fare il più possibile da sé, alla sobrietà , alla sufficienza, al controllo consapevole e responsabile delle conseguenze del proprio agire. Una società  di liberi perché eguali, semplicemente, deve scegliere di farsi la raccolta differenziata, di astenersi dal mangiare hamburger, di evitare di servirsi di lavoro schivo, di servirsi delle banche che imprestano ad interesse, di rinunciare a produrre e vendere armi e via dicendo. Insomma, dentro i paradigmi della crescita non credo vi potrà  mai essere l’auspicato – da Viale e da tutti noi – autogoverno dei processi economici. Scriveva André Gorz (anche lui “povero di contenuti”?): «La decrescita è una buona idea: essa indica la direzione nella quale bisogna andare e invita a immaginare come vivere meglio consumando e lavorando meno e altrimenti». Chissà  perché non dovrebbe essere un mondo auspicabile, desiderabile, per il quale vale la pena lottare.


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