Attenti, l’intelligenza artificiale diventerà  come quella naturale

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In sostanza, infatti, sapeva fare un’unica cosa: quel gioco fondamentalmente banale – e lo sapeva giocare bene soltanto perché era stata programmata per seguire un network automatizzato di interruttori on/off. Non pensava, quindi. Teneva soltanto traccia di quello che accadeva.
Le nuove macchine e i nuovi programmi sono davvero più intelligenti? Gli scettici fanno notare che ciò che essi sanno fare non è in verità  ciò che noi definiamo “intelligente”. Racchiudono un ampio assortimento di esempi, una grande casistica, ma la loro capacità  logica non è granché diversa da quella della macchina che giocava a filetto nel museo di scienze. Hanno potenti memorie e una straordinaria capacità  di analizzarla rapidamente per trovare ciò che serve in una data circostanza, ma tutto ciò non dimostra che sappiano pensare, programmare, trovare strategie, sorprendere o escogitare un piano così folle da funzionare alla perfezione. Anche se su piani diversi, in sostanza si limitano tuttora ad abbinare uno scenario familiare “A” a una soluzione predeterminata “A”. Riconoscono una mossa o una situazione particolare sulla scacchiera e riescono a trovare nella loro memoria la mossa da compiere che il più delle volte porta alla vittoria quando giocano contro esseri umani, ma questa –brontolano gli scettici – è semplicemente idiozia ben indicizzata, non autentica intelligenza.
Ho sempre pensato che il test di Turing (quello che serve per misurare se una macchina è in grado di pensare, ndr) fosse una pura astrazione, un problema da filosofi, e invece ha portato alla nascita di veri e propri tornei – come se il paradosso di Zenone avesse portato ad autentiche corse tra tartarughe e guerrieri greci. I dettagli dei test di Turing e dei tornei sono l’argomento trattato dal meraviglioso libro di Brian Christian, poeta e appassionato di computer, che si intitola The Most Human Human (Doubleday, $ 27,95), uno dei rari eredi letterari di successo di Gà¶del, Escher, Bach, nel quale arte e scienza si ritrovano in una mente impegnata e il loro incontro produce vere scintille.
Christian avanza un’idea più sottile e poetica quando afferma che il linguaggio umano non è soltanto scambio di assiomi, o finanche di abbreviazioni codificate a livello emotivo, bensì un’attività  effettuata al limite tra la “perdita di qualità ” di una comunicazione compressa e la versatilità  con la quale noi la comprimiamo; tra la nostra consapevolezza che da qualsiasi cosa diciamo dobbiamo necessariamente escludere moltissime informazioni per motivi di economia e la nostra capacità  di rendere tale economia eloquente e informativa in ogni caso. Il linguaggio dei bimbi piccoli, per esempio, è un esempio perfetto di compressione ben bilanciata con la concisione. Ciò che all’estraneo suona limitato e ripetitivo, per l’ascoltatore informato è pieno di sfumature come Henry James.
E tuttavia l’intelligenza umana ha un altro punto a suo vantaggio: il senso di impellenza che conferisce all’intelligenza umana una sua forza tutta particolare. Forse la nostra intelligenza finisce soltanto con la nostra mortalità : in gran misura è la nostra mortalità . Immaginiamo per un momento di impartire a una serie di computer interconnessi e in grado di correggersi, programmati per raggiungere un obiettivo volutamente indeterminato e a lungo termine, la seguente disposizione: «Effettuate quanti più calcoli significativi riuscite, e cercate di farne più di qualsiasi altro computer del laboratorio», lasciando di proposito multivalente e vago il concetto di “significativi”. Immaginiamo poi che ciascuno di questi computer abbia un candelotto di esplosivo collegato al suo microprocessore (Cpu, unità  centrale di elaborazione), con un fusibile ad azione ritardata e un’instabilità  da settantenne, e che ciascuno di essi lo sappia. Aggiungiamo che l’acido corrosivo che fa detonare il fusibile rallenta ogni singola funzione del computer, così che verosimilmente faccia calcoli più significativi interfacciandosi a un altro computer prima che le sue connessioni si usurino. I computer, pertanto, in qualsiasi momento dovrebbero prendere decisioni terribilmente difficili e valutare se valga la pena investire in un determinato calcolo, tenuto conto del più generico incarico a tempo limitato di effettuare calcoli veramente significativi. Essi pertanto dovrebbero, per esempio, valutare gli svantaggi e i vantaggi legati al fatto di scambiare informazioni subito a fronte della consapevolezza della loro distruzione incombente e delle esigenze di tutti gli altri incarichi che è necessario che svolgano. Alcuni si tirerebbero indietro e non farebbero altro che effettuare calcoli per conto proprio; alcuni allaccerebbero connessioni in modo frenetico; altri ancora si chiederebbero se sia valsa la pena cercare di vincere un programma televisivo a quiz giacché scopo principale era vincere la gara dei “calcoli più significativi”. I computer effettuerebbero calcoli sul giusto rapporto tra il tempo necessario e il significato raggiunto e li distribuirebbero in tutto il network creato. Tenendo conto delle pressioni dovute ai limiti temporali, i calcoli probabilmente sarebbero brevi – diciamo di dieci o undici linee al massimo – e il più significativo con ogni probabilità  sarebbe condiviso con tutte le altre macchine. (Potrebbero addirittura essere resi più facilmente memorabili grazie a ritmi e configurazioni melodiche). Alcune macchine indubbiamente inizierebbero a produrre sottoprogrammi che meditino più astrattamente sulle difficoltà  di essere una macchina intelligente con un’imminente rischio di esplosione. («Alle mie spalle sento avvicinarsi sempre più un programma incombente», «Radunate tutte le vostre funzioni, finché potete!»). Nel giro di una generazione, ironia, poesia, ambiguità , estasi diverranno parti integranti della produzione e della percezione dei computer. Saranno intelligenti e ottusi, proprio come noi siamo intelligenti e ottusi.
Traduzione di Anna Bissanti


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