Anche l’Invalsi perderà  la sfida del merito?

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Fra i pro chi si è battuto con maggior vigore è stato l’economista Tito Boeri, apprezzato editorialista del nostro giornale, le cui osservazioni – in buona parte da me condivise – riflettevano le ragionevoli esperienze di un docente non ideologizzato. Ma proprio lo spirito d’indipendenza ha fatto infuriare più d’uno: c’è chi accusa i test di servire come «strumento per propagandare surrettiziamente delle ideologie», anche se, come risponde Boeri on line, «non si capisce di quale ideologia si tratterebbe».
Altri contestano il fatto di «voler usare i test per differenziare le retribuzioni del corpo docente». È assai probabile che questa obiezione si avvicini di più ai timori di parte degli insegnanti e, più in generale, rifletta la ritrosia della scuola italiana per ogni criterio di valutazione comparata. Eppure la scuola dovrebbe essere l’unico settore entro il quale la capacità  scaturisce da comparazioni prestabilite, attraverso il voto di merito agli studenti, ma non così all’interno del personale docente, sottratto ad ogni graduazione di competenza; né fra le singole scuole. Si verifica di conseguenza, fin dalla prima linea, quel “blocco della meritocrazia” che differenzia e penalizza il nostro Paese, un fenomeno recentemente oggetto di uno studio della Fondazione Ambrosetti e che si estende a raggiera in tutte le professioni, con particolare incidenza nel settore pubblico.
In ogni modo dietro l’insoddisfazione per ogni metodologia di valutazione resta un substrato culturale che si è radicato nei decenni. Senza soluzione di continuità  prima col fascismo, dove contava la fedeltà  al regime, poi nel settantennio repubblicano, dominato dalla partitocrazia, retta dalle aderenze politiche, gli italiani hanno tratto la convinzione che ciò che conta è l'”appartenenza”, fattore prioritario e decisivo più di ogni capacità  professionale. Nella scuola questo principio, non scritto ma da tutti sentito, ha svalutato il concetto stesso di studio e declassato il ruolo degli insegnanti. Parla di per sé la rilevazione del World Value Survey 2008 secondo cui in America il 90% della popolazione ritiene che «le persone con maggiori abilità  dovrebbero guadagnare di più», mentre il 60% degli italiani crede che «tutti dovrebbero guadagnare allo stesso modo». È inutile, quindi, lo studio ed ancora più inutili le parole di chi insegna.
Fra le tante lettere che ricevo ne cito una del prof. Roberto Albertini di Palermo: «Dopo 35 anni mi appresto ad andare in pensione, spinto anche dall’ultimo miserabile taglio del mio ultimo scatto di anzianità . Veniamo alle prove Invalsi per valutare l’efficacia educativa e formativa, cercare rimedi e correttivi. Eppure un’idea lapalissiana non è venuta a nessuno: Chiedere agli insegnanti!!! Chiedere prima di tutto a loro il perché del senso di frustrazione, che tanti di noi proviamo nel constatare la sempre crescente inefficacia del nostro lavoro. Dieci, venti o trent’anni orsono non ero più incapace o formato di oggi. Le mie discipline (elettronica, fisica, informatica) le so insegnare meglio oggi di ieri con mezzi tecnici impensabili nei primi anni. E invece abbiamo potuto misurare di anno in anno il progressivo disinteresse degli allievi, la perdita di curiosità , la passività  indistinta, facilitate dalla deleteria alleanza tra famiglie e ragazzi in una reciproca deresponsabilizzazione. L’Invalsi chieda agli insegnanti perché sta accadendo tutto questo, studi le loro risposte, apra un vero dibattito culturale, sociale e politico. Il problema non è registrare attraverso i quiz quanto sia carente la preparazione, è capire il perché!».


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