by Sergio Segio | 17 Giugno 2011 8:49
Madrid. La crisi, in qualche modo, c’entra. Con le sue devastanti conseguenze di precarietà , disoccupazione, nuove povertà . Ma mai nessuno avrebbe immaginato che potesse produrre un effetto collaterale distorto e criminale che si sperava cancellato per sempre dal codice genetico delle società avanzate: si chiama schiavitù – ed è in tutto simile nelle forme alla pratica aberrante abolita due secoli fa – la nuova ombra inquietante che plana minacciosa sul vagone di coda dell’Europa del XXI secolo. La prima prova tangibile della ricomparsa dei “negrieri”, e delle loro vittime, è in una sentenza pronunciata ad aprile dal Tribunale di Fundà£o, nel Portogallo centro-orientale. Sul banco degli imputati, una banda criminale a gestione familiare: il capo, Antonio José Fortunato Maria, soprannominato “Tà³ Zé Cigano”, e i genitori settantenni, entrambi complici. Oriundi portoghesi ma residenti in Spagna. Qui percorrevano le campagne per verificare chi avesse bisogno di manodopera a basso costo. Poi tornavano al loro paese d’origine e andavano alla ricerca di persone che vivessero in miseria, preferibilmente unita a problemi di alcolismo o deficienze mentali. Quello che offrivano era una retribuzione minima, assicurando però vitto e alloggio gratis a cambio del lavoro nei campi.
UNA VOLTA ARRIVATI in Spagna, la situazione a cui i malcapitati si trovavano di fronte era completamente diversa. L’incubo cominciava con il sequestro dei documenti. Li obbligavano a lavorare anche 20 ore al giorno tra percosse incessanti, freddo, fame e ogni tipo di vessazioni. Dormivano in 12 incatenati gli uni agli altri – proprio come avveniva all’epoca della tratta degli schiavi nelle stive delle navi negriere – in un pollaio vecchio e sudicio. Qualcuno, come il minorenne Ricardo dos Santos, è poi riuscito a fuggire da questa “hacienda” degli orrori, nelle campagne di Iscar, provincia di Valladolid, ad appena 150 chilometri da Madrid. E alla denuncia sono seguite le condanne: vent’anni di carcere a “Tà³ Zé Cigano”, 12 e 8 ai genitori. L’accusa: pratica della schiavitù. È la prima volta che accade nella storia del Portogallo. Ma non sembra destinata a essere l’ultima. Di recente è stata sgominata un’altra banda che portava disperati portoghesi in Spagna. A Coimbra è già tutto pronto per celebrare il processo contro i sette imputati principali, con una ventina di vittime disposte a raccontare tutto davanti ai giudici.
Secondo il quotidiano di Lisbona Publico, la schiavitù è un crimine sempre più diffuso in Portogallo. Le piantagioni spagnole di cipolle, patate, carote e aglio non sono l’unica destinazione dei nuovi schiavi. A far scattare l’ultimo campanello d’allarme è il sindacato degli edili, che parla di migliaia di portoghesi sfruttati in modo vergognoso persino in Francia e Germania, dove lavorano dodici ore al giorno e vivono in condizioni subumane, in 15 in una stessa stanza.
LA CRISI FINANZIARIA li costringe a partire, a volte allettati da promesse di stipendi fino a 2.500 euro al mese, che poi, alla prova dei fatti, non superano in genere i 700. Ma per chi resta in Portogallo, le cose possono andare anche molto peggio: come il caso, denunciato dall’arcivescovo di Beja, monsignor Antonio Vitalino Dantas, di “centinaia di persone impegnate in modo abusivo nella raccolta delle olive”. Succede a poca distanza dai lussuosi resort turistici dell’Algarve, nella regione dell’Alentejo, dove si vedono cittadini portoghesi (ma anche rumeni, bulgari o moldavi), lavorare a piedi scalzi, al freddo, e frugare nei bidoni della spazzatura per non morire di fame.
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