Al confine le cose si vedono meglio. Da voi ho capito lo scontro sull’emigrazione

by Editore | 4 Giugno 2011 6:47

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l Gran Tour del nuovo millennio è sempre di più un viaggio tra le rovine del presente. L’Italia vista dagli scrittori Nordeuropei è una specie di laboratorio in cui si analizzano virus contagiosi: gli effetti della mediacrazia, la migrazione come conflitto, il malaffare che si fa politica, tra i tanti in essere. Ingo Schulze, lo scrittore di Dresda che ha raccontato la Germania nell’età  di transizione dopo la caduta del Muro, ha trascorso un anno a Roma e i nove bozzetti di Arance e angeli, accompagnati dalle fotografie di Matthias Hoch, rappresentano un asciutto resoconto dai margini del nostro paese, che è poi il modo di Schulze per trattare il generale. Un viaggio verso il Sud, che passa da Napoli – «mi fa girare la testa ma non so se potrei viverci» –, e approda in Sicilia, terra in cui tutti i popoli europei hanno lasciato un segno: «Vicino Siracusa ho incontrato un clandestino del Darfour che lavorava come muratore e mi sono accorto che il nostro albergo sorgeva dove c’era la prigione degli Ateniesi durante la guerra del Peloponneso». Guardando in casa propria, si dice d’accordo con Gà¼nter Grass sulle critiche ai giovani scrittori perché poco impegnati. Severo il giudizio sulla posizione della Merkel nella guerra in Libia: «Ero contrario agli interventi in Kosovo, in Afghanistan, in Iraq. Così come a suo tempo corteggiavamo Saddam, abbiamo steso il tappeto rosso per Gheddafi. Vedere come vengono oppressi gli insorti è inaccettabile. Si è lasciato che si arrivasse a questo, che le armi diventassero l’unico modo per impedire il peggio».
Qual è la genesi di questi racconti?
«Il vostro paese è sempre stato un punto di riferimento. Sono cresciuto a Dresda, circondato dal Barocco e dalla pittura italiana. L’Italia è presente in diversi miei libri. Ho vissuto a Roma, nella sede dell’Accademia tedesca. Durante la permanenza ho invidiato i pittori e i fotografi per l’immediatezza della loro arte. Avrei voluto fare dei bozzetti italiani, obbligarmi a visioni più precise, pur sapendo che a un narratore le idee vengono solo una volta che è ripartito».
L’Idea viene prima del fatto raccontato?
«Non riesco mai davvero a fare la separazione: cos’è un’idea, cos’è l’esperienza, cos’è la verità ? Tuttavia ha forse ragione: molte sollecitazioni letterarie mi sono venute dalla lettura della raccolta di novelle e racconti Gesta Romanum. Mi è capitato di imbattermi in storie che mi aspettavo di riscontrare nella realtà  italiana».
Sembra che per lei le cose si capiscono solo quando sono in opposizione tra loro, nello stridere delle diverse realtà . Come mai?
«Al confine le cose si vedono sempre meglio. In Italia ho fatto esperienza dello scontro dell’Occidente con l’immigrazione, legale o illegale. Da voi il conflitto era inevitabile. Lo ritrovavo facendo la spesa o andando al mare. Inoltre le stratificazioni culturali di duemila anni di storia sono molto visibili. In questo senso i conflitti lavorano anche in profondità . Ho riflettuto su quanto la Storia sia incollata all’oggi. Tutto può sempre ripetersi. Il ghiaccio su cui conduciamo le nostre vite è sottile. Per chi è cresciuto durante la guerra fredda questo concetto era chiaro, ma per chi lo capisce facendone esperienza diretta è diverso».
Rispetto al passato ora è più attratto dal ruolo del cronista o del narratore orale di storie.
«Si, anch’io la vedo così. Era importante essere percepito come un cantastorie. Il punto di partenza nella maggior parte delle mie storie – è evidente in Bolero berlinese – è il fatto che il narratore voglia fare chiarezza, racconta per scoprire cosa è successo a lui e al mondo. Questo nasce dalla diffidenza nei confronti di una certa pretenziosità  della letteratura. Forse ha anche a che vedere con la realtà  europea, che è più dura che mai, e mi pare peggiori di giorno in giorno. Ma questa apparente immediatezza è a sua volta uno stile letterario».
Perché il narratore si porta sempre appresso la Passeggiata a Siracusa di Seume?
«Grazie a lui abbiamo un’idea di come fosse la quotidianità  nel 1802, cercò di afferrare l’hic et nunc in tutta la sua complessità . Il suo raggio d’azione era ristretto rispetto a quello di Goethe; la sua visione sempre ad altezza di sguardo. È stato un pensatore chiaro e determinato nel giudizio politico come nessun altro scrittore all’inizio del XIX secolo».
In Bolero berlinese lo scrittore è un viaggiatore «né triste né contento», accade la stessa cosa al testimone di Arance e angeli?
«Dobbiamo sempre raccontare la nostra vita, per percepire noi stessi come esseri umani fra gli esseri umani. Questo è il compito più importante dello scrittore. Che non è solamente uno che rende conto, è anche uno che regala molto di sé. Egli racconta, ma è il lettore che, avendo una visione più ampia, coglie quei limiti che al narratore sfuggono. Il lettore è il giudice, il narratore è il testimone – che in certi casi può diventare anche l’incriminato, se il giudice si accorge che mente».

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