by Sergio Segio | 13 Giugno 2011 13:03
Ma ci sono anche se rappresentano una stonatura in un quadro idilliaco costruito sulla ferrea logica dello scambio capitali (cinesi) contro materie prime/idrocarburi/terra (africani). C’è uno scetticismo nuovo, appena sussurrato, che si respira tanto a Pechino che nelle capitali dell’ex continente dimenticato. In Africa, ad esempio, non sono pochi a chiedersi se e quanto sia paritario il rapporto con la Cina. L’enorme flusso di capitali cinesi negli ultimi anni ha sicuramente creato prospettive di sviluppo ma l’altro lato della medaglia sono il land grabbing[1], devastazioni ambientali come il massiccio disboscamento della Savana in Guinea, l’ulteriore indebitamento di molti Paesi e i guadagni illeciti per classi politiche che si sono mostrate inclini alla corruttela e che oggi beneficiano di contratti di una certa opacità . I giornalisti Nicholas Norbrook e Mashall Van Valen se lo sono chiesto di recente in un articolo dal titolo eloquente: Africa’s Emerging Partners: Friends or Foes?. Alla domanda i due non rispondono in maniera univoca, ricordando le opportunità rappresentate dagli investimenti di Cina, Brasile, India e Russia. Però danno voce ad un dubbio che non è più latente ed è espresso dalla business community ruandese. Il Ruanda, che puntando sull’alta tecnologia e le telecomunicazioni si sta trasformando nella Singapore d’Africa, rappresenta un esempio di sviluppo assai diverso e più promettente rispetto a quello di Paesi che hanno puntato solo su idrocarburi, prodotti agricoli e miniere, consentendo alle imprese cinesi di diventare padrone in casa d’altri[2].
Ma molti sono i dubbi di Pechino, dove l’entusiasmo per un continente dal potenziale enorme[3] si è raffreddato parecchio. L’ultimo colpo alle precedenti certezze è arrivato dalla primavera araba, partita dal Nord Africa. In Cina si stanno elaborando le prime analisi del costo delle insurrezioni in Egitto e Tunisia e della guerra in Libia: il rimpatrio dei 36 mila lavoratori[4], rimasti ostaggio del collasso del regime di Muhammar Gheddafi, e i danni materiali subiti sono costati a Pechino oltre tre miliardi di dollari. Nei primi tre mesi di quest’anno, gli investimenti cinesi in Algeria sono precipitati, registrando un meno 69,8 per cento, mentre quelli in Libia hanno toccato un meno 46,9 per cento. La forte instabilità politica è tornata a far paura: le fibrillazioni del Sudan, alle prese con la secessione del Sud Sudan e un nuovo deterioramento della questione del Darfur, ma anche la guerra in Costa d’Avorio, il caos nigeriano, quello del Burkina Faso, la crisi del regime di Yoweri Museveni in Uganda e la transizione al post-Mugabe in Zimbabwe hanno moltiplicato gli scenari problematici. E così non deve sorprendere il fatto che nel nuovo piano quinquennale elaborato dal ministero del Commercio cinese si registri uno spostamento sull’Asia del focus commerciale. Molti Paesi asiatici hanno margini di crescita altrettanto interessanti, classi medie in espansione ma una maggiore maturità politica.
Non ultimo, pesa anche una concorrenza quanto mai agguerrita e che offre un gancio ai leader africani che vogliano giocare al rialzo, chiedere revisioni contrattuali, esigere percentuali dei proventi più alte. L’antagonista principale è l’India, che solo pochi giorni fa è stata al centro di un forum organizzato ad Addis Abeba. Gli scambi tra New Delhi e l’Africa ammontavano a tre miliardi di dollari nel 2000, ma a 46 miliardi nel 2010 e saliranno a 70 nel 2015. Una cifra ancora lontana dai 200 miliardi di dollari, valore degli scambi Cina-Africa registrati nel 2009 ma indicativa di un trend. La Cina, che alla fine del 2010, poteva vantare ben duemila imprese presenti nel continente e investimenti per 32 miliardi di dollari resta ancora una potenza che non teme confronti e in una posizione di vantaggio. E lo sarà ancora a lungo. Uno studio dell’Asia Society di New York rivela che l’investimento diretto cinese all’estero nei prossimi dieci anni si attesterà tra i mille e i duemila miliardi di dollari. Ma quale fetta toccherà all’Africa è ancora da vedere.
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