Acqua pubblica, il rebus del 7%

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Le giornate post-voto sono state febbrili per tanti. La lunga fila dei segretari di partito, pronti ad ammiccare al popolo dell’acqua; i conduttori televisivi che sudavano freddo appena vedevano in collegamento un qualsiasi essere vivente con maglietta blu e il numero magico «2 sì» stampato; un piccolo esercito di giornalisti alla caccia disperata di un senso per quello che è accaduto, un racconto, un volto, una qualsiasi formula che potesse spiegare quello che per anni non hanno voluto vedere. E infine i grandi manager delle multiutility. È il secondo quesito la questione centrale che sta creando un vero e proprio panico, dimostrato dal silenzio tombale calato sui contenuti dei referendum. Ricordiamolo, riguardava la remunerazione del capitale investito, pari oggi al 7%. Quanto vale in soldoni? Almeno quanto i denari necessari per sistemare le reti idriche italiane o per finanziare il diritto universale di accesso all’acqua.
Per capire fino in fondo la portata del secondo referendum dobbiamo prendere in mano la bolletta dell’acqua. Dietro la cifra complessiva stampata sul bollettino da pagare alla posta c’è un sistema complicato di calcolo della tariffa, che parte da un numero magico per i gestori dell’acqua, la tariffa media d’ambito. È in sostanza il prezzo medio dell’acqua, composto a sua volta da alcuni fattori: i costi operativi (l’elettricità , il personale, la manutenzione ordinaria), gli investimenti realizzati in un anno e la famosa remunerazione del capitale, ovvero il 7% sugli investimenti. È quest’ultima componente la parte della tariffa che da oggi – giorno della proclamazione ufficiale del risultato dei referendum – sarà  fuori legge. Nessuna Spa la potrà  intascare legittimamente, se si vorrà  rispettare fino in fondo la volontà  degli elettori. Ma c’è di più.
Lo scontro tra i comitati pugliesi dell’acqua e la giunta Vendola ha avuto come oggetto del contendere il diritto universale di accesso all’acqua. Questo principio prevedeva – nel testo originario discusso con il movimento – lo stanziamento di un fondo destinato a finanziare almeno 50 litri al giorno gratuiti per tutti. Una vera rivoluzione culturale, che non significa acqua gratis – come propaganda la destra – ma la garanzia di non vedersi staccare l’acqua se alla fine del mese non si riesce a pagare la bolletta. Accade, però, che il testo approvato dal consiglio regionale vincoli questo diritto all’avanzo di bilancio, affermando che solo se si guadagna si potrà  garantire effettivamente questo principio. In sostanza, ha spiegato anche Vendola, i soldi non ci sono per questa meravigliosa utopia.
Aprendo il piano d’ambito della Puglia – ovvero i documenti ufficiali che regolano la gestione idrica – si scopre però che il famoso 7% è regolarmente inserito a bilancio e pesa (dati 2012) per 0,13 euro a metro cubo. Una cifra che dovrebbe crescere fino 0,22 euro al metro cubo nel 2018. Soldi che – grazie al voto referendario – non potranno andare più ai soci, a prescindere dalla forma sociale che verrà  scelta. Quantificando questa parte della tariffa si arriva agevolmente alla cifra di 40 milioni, disponibili già  il prossimo anno, soldi che in qualche maniera dovranno ritornare ai cittadini.
In fondo sarebbe bastato attendere qualche giorno per poter mettere con chiarezza questo principio nella legge regionale approvata martedì in Puglia. Era la prima e diretta conseguenza dei referendum, facilmente spiegabile ai cittadini. Un effetto che riguarderà  tutta l’Italia, con un impatto economico, sociale e culturale enorme. La remunerazione del capitale investito per Acea, ad esempio, vale 1,7 miliardi di euro, considerando il periodo 2012-2032, ultimo anno della concessione per la gestione dell’acqua nella provincia di Roma. Soldi che potranno finanziare – a parità  di tariffa – sia l’accesso universale all’acqua che l’incremento degli investimenti nelle zone dei Castelli Romani colpite dall’emergenza arsenico.
Manca un passaggio fondamentale per rendere concreto ed efficace il referendum. Dovranno essere i comuni a riprendere il ruolo di protagonisti, non più bloccati dall’altra norma abrogata, l’arti. 23 bis della legge Ronchi-Fitto. È ora questa la vera sfida per la politica, l’unica strada per stringere un’alleanza con il popolo dell’acqua.


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