A Bamyan, nella terra orfana dei Buddha “Per primi senza la Nato: abbiamo paura”

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BAMYAN – «Sono belle anche così», sostiene Mokhtar Ahmadi di fronte alle caverne che fino al 2001 ospitavano i Buddha ciclopici contro i quali s’accanì la follia iconoclasta dei Taliban, e che oggi come due gigantesche orbite vuote conservano il ricordo di quei giorni terribili. Ora, se il turismo può costruire la sua fortuna sulla memoria, a Bamyan, capoluogo dell’omonima provincia afgana scelta dalla Nato come area pilota per la transizione, c’è già  chi per non dimenticare quello scempio vorrebbe rilanciare l’industria turistica. «Durante gli anni Settanta da queste parti arrivavano anche 60mila stranieri in una sola estate: un giorno non troppo lontano potremmo tornare a quei fasti», aggiunge Mohktar al quale, quel giorno, piacerebbe raccontare ai visitatori la storia degli idoli distrutti dal tritolo degli Studenti del Corano.
Come la maggioranza della popolazione di Bamyan, anche Mokhtar è hazara. Appartiene cioè a uno dei pochi gruppi etnici pacifici dell’Afghanistan, e forse per questo tra i più discriminati e perseguitati. Come spiega la governatrice della provincia, Habiba Sarabi, prima e unica donna a ricoprire tale incarico, gli hazara non sono mai stati così felici negli ultimi duecento anni. «Che cosa succederà  quando andranno via delle truppe della Nato? Non oso pensarci», dice. «Da un lato siamo fieri che la transizione cominci proprio qui da noi, dall’altro siamo angosciati perché essa rappresenta la prima tappa della cosiddetta Exit strategy».
Già , la transizione spaventa molti afgani. Spaventa anzitutto chi vive nelle sette aree del Paese ormai relativamente tranquille – due province e cinque città  – dove il mese prossimo le forze della coalizione lasceranno la gestione della sicurezza in mano alla polizia e all’esercito afgani, in vista, nel 2014, di un ritiro definitivo. «Ma la transizione non è una data, bensì un lento processo di passaggio delle consegne», minimizza il generale statunitense James Mallory. «Mi sembra un lasso di tempo realistico perché ciò avvenga senza intoppi, anche se in certe aeree rimarrà  necessaria la nostra presenza».
Per poter ritirare le sue truppe tra tre anni, dall’inizio del 2011 Washington spende un miliardo di dollari al mese che servono a reclutare, armare e alfabetizzare l’esercito afgano. E ha consentito al presidente afgano, Hamid Karzai, di ottenere prestiti cospicui per altri quindici anni, con cui pagherà  gli stipendi dei suoi soldati e dei suoi poliziotti.
Il problema è sempre lo stesso, gli insorti, che sono Taliban, ma anche ex signori della guerra, trafficanti di droga, fanatici di Al Qaeda e criminali comuni, e che lo scorso maggio hanno ucciso quasi quattrocento civili, un bilancio che non si registrava in un solo mese dal 2007. Perfino nella sicura Bamyan, pochi giorni fa è stato rapito e decapitato un consigliere provinciale. Quando chiediamo al colonnello Sean Ferrari della Nato training mission il perché di tante vittime, oggi che tutti parlano di un netto miglioramento della situazione, lui risponde che gli insurgents sono più che mai sotto pressione: «Non credo che siano diventati più forti, ma che stiano piuttosto sparando le loro ultime cartucce perché si sentono con le spalle al muro».
Il colonnello Ferrari cita l’esempio di quanto accade nel sud dell’Afghanistan. Negli ultimi mesi le forze della coalizione hanno aumentato i loro effettivi di 50mila unità , e sono adesso coadiuvate da circa 100mila nuove reclute dell’esercito afgano: insieme hanno conquistato posizioni, tagliato le vie di comunicazione e rifornimento dei Taliban, catturato o ucciso molti loro capi. «È in atto un’escalation ed è perciò normale che ci attacchino con così tanta violenza».
Tuttavia, gli stessi generali della Nato sono convinti dell’inutilità  di una guerra a oltranza contro gli insorti, salvo ovviamente contro quei fanatici che vorrebbero riportare l’Afghanistan indietro nel tempo e che per questo motivo mandano i loro sgherri a farsi esplodere nei mercati più affollati. Secondo il comandante delle operazioni militari statunitensi in Afghanistan, David Petraeus, i Taliban sono circa 30mila. Un computo nel quale non rientra però chi accetta di piazzare un ordigno lungo una strada in cambio di una decina di dollari. Per molti di loro è stato lanciato un programma di reinserimento alla vita civile. «Ma non li disarmiamo, per la loro stessa incolumità , perché quando cambiano casacca diventano automaticamente bersaglio dei loro ex compagni: possono quindi conservare il loro kalashnikov, che dovrà  essere registrato e che servirà  a difendersi da eventuali rappresaglie», dice Gary Younger al quartier generale della Nato a Kabul. «Dopo 30 anni di guerra, gli afgani sono stanchi di combattere, ma per costruire la pace dobbiamo reintegrare i combattenti con dignità  e onore».
Al momento soltanto in pochi hanno smesso di spalleggiare gli insorti, mentre tutti si chiedono che cosa accadrà  il maledetto giorno in cui si ritireranno gli eserciti stranieri. Se lo chiede anche Hamid Adina, preside dell’Università  di Bamyan, distrutta dai Taliban nel 2000 e rifondata nel 2004. «Oggi conta circa duemila studenti ma per loro non ci sono dormitori, mancano le sedie e spesso anche l’elettricità  per accendere il centinaio di vecchi computer che abbiamo in facoltà », dice.
Oltre le finestre del suo studio, nereggiano le caverne dei Buddha, mastodonti che furono scolpiti nel V e VI secolo. Uno era alto 35 metri, l’altro 53. Una ong tedesca ha pazientemente numerato i blocchi di macerie in cui i Taliban li hanno ridotti, nella speranza che si possa un giorno tentare un improbabile restauro.
All’orizzonte svettano quei picchi incappucciati di nevi eterne che circondano la valle di Bamyan. «Potremmo sfruttare questo straordinario patrimonio naturalistico anche d’inverno, magari per lo sci alpinismo», dice Gul Hussian Baiazada, giovane e visionario imprenditore. Il problema è che per raggiungere la città  dei Buddha distrutti non ci sono voli per turisti. Chi invece volesse andarci in macchina da Kabul sarebbe costretto a percorrere strade dove non si avventurano neanche i blindati della Nato.

 


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