Yoga: La battaglia del copyright
Sveglia alle cinque del mattino, al suono di un tamburo. Doccia ghiacciata. Niente caffè o tè, per evitare le tossine eccitanti. E via col saluto al sole, sotto la guida paterna ma inflessibile di Jaggi Vasudev, detto il Sadghuru. Ore di esercizi, meditazione, ancora esercizi. Un intervallo per il pasto da consumare accovacciati sulla nuda terra: un po’ di riso bollito, semolino, lenticchie, mango, si mangia solo con le mani. Via al lavoro di nuovo: tre sedute di yoga, due «lezioni di vita» su come «organizzare le energie interiori, proteggersi dalle distrazioni, ricavare il meglio di sé in ogni istante della vita». A letto sfiniti, alle nove di sera, in una cella monacale da dividere con uno sconosciuto. Brandine militari, niente telefono né tv.
Ricordo così il mio ultimo soggiorno a Vanaprashta, l’ashram della fondazione Isha nel Tamil Nadu, punta meridionale dell’India. Due settimane d’isolamento dal mondo, insieme a duecento indiani: un’esperienza spartana e frugale. Serena, senza eccessi: non ero finito in una setta di fanatici. Non dovevo dimostrare nulla a nessuno, neanche a me stesso. La sera in quel villaggio di casupole contadine in mezzo alla foresta tropicale, con in lontananza qualche barrito di elefante, ci univa la solidarietà della fatica, e il sentimento di un lavoro ben fatto.
Ed eccomi a Manhattan, capitale dello Yoga-Business. Trovarsi un maestro non è difficile: sono delle superstar, gestiscono la propria carriera come Brad Pitt e Lady Gaga. Ava Taylor è la più celebre manager dei guru, li lancia sul mercato, cura la loro immagine, gestisce il loro carnet d’impegni. Yoga Vinyasa o Iyengar, Kundalini o Hatha, il consumatore deve poter scegliere. Livello Beginner, Intermediate, Advanced, qui s’infiltra perfino lo spirito competitivo tipicamente occidentale. Esiste anche il Power Yoga, dall’ironia involontaria: sono corsi dove le posizioni si alternano a gran velocità , ne esci stremato e coi muscoli sfiniti come da un triathlon, ma a guardare i volti concentrati allo spasmo dei tuoi compagni ti chiedi se questo non sia soprattutto “lo yoga del potere”, cioè destinato ai potenti.
La moda dello yoga in America la portarono a ondate Hermann Hesse, poi i poeti Beat, infine i Beatles, gli hippy, la New Age. Ma in pieno boom dei figli dei fiori, a metà degli anni Settanta, gli adepti erano “appena” cinque milioni. Ora abbiamo superato i sedici. Il fatturato raggiunge i 5,7 miliardi di dollari: non solo maestri e palestre, ma almeno cinque riviste specializzate in carta patinata piene di pubblicità per corsi-vacanza sull’Himalaya, ritiri nel Vermont con massaggi ayurvedici e dieta vegan, poi le varianti “yoga post-parto”, e naturalmente “tantra-yoga del sesso”. Attorno c’è l’indotto, colossale. Esiste ormai un festival rock-yoga, Wanderlust, dove si alternano bande musicali e guru-Vip che dirigono sessioni di esercizi. Esiste l’Armani delle tute, si chiama Lululemon Athletica, ha negozi sparsi in tutti i bei quartieri di Manhattan. Negli ultimi tre mesi il suo fatturato è balzato a 245 milioni, i profitti sono saliti del 92 per cento e «abbiamo esaurito le scorte, non riusciamo a star dietro alla domanda». Da Lululemon c’è la coda alle casse eppure paghi dai trecento ai cinquecento dollari per non sfigurare quando fai il padmasana (posizione del loto) sul tappetino.
Nel Tamil Nadu costa meno l’iscrizione a due settimane di corsi, vitto e alloggio inclusi. Qui a Manhattan insieme col prof ti scegli anche il dj perché lo yoga ci viene offerto con l’optional delle colonne sonore. Ci sono maestri che preferiscono Bob Marley, Nina Simone, altri che sullo sfondo vogliono solo melodie orientali, ma il trend più recente sono le composizioni originali di Derek Beres, che ha creato una casa discografica ad hoc e il catalogo di cd The Yoga Sessions. Ammetto che la musica non è solo un contorno: fra tutti i miei maestri al Ymca dell’Upper West ho un debole per Tom, forse anche per via dei Beatles (Here Comes the Sun) che lo accompagnano sullo sfondo.
E finalmente gli indiani sono insorti. Contro questi stravolgimenti e la commercializzazione sfrenata, è partita la campagna Take Back Yoga («riprendiamoci lo yoga»). L’ha lanciata la Hindu American Foundation diretta da Aseem Shukla, associazione culturale che riunisce molti immigrati indiani. Qui sono spesso una élite: informatici, medici, professionisti, imprenditori. Non per questo si lasciano americanizzare senza resistere. Per il dottor Shukla non c’è nulla di male se lo yoga piace tanto agli americani, «purché non dimentichino che fa parte di una civiltà , di una cultura antica, ed è anche segnato dalla religione induista». Quello che addolora gli indiani di qui è che, mentre lo yoga sale alle stelle, l’induismo è ancora percepito come «la religione delle caste, delle vacche sacre e del curry». In un intervento sul Washington Post, il dottor Shukla ha lamentato il «furto di proprietà intellettuale» di tanti centri yoga che saccheggiano i testi sacri dell’induismo, per poi «sfruttare questa religione perseguendo bassi fini di profitto».
La campagna “Riprendiamoci lo yoga” ha un’eco con quel che sta accadendo a New Delhi. Anche il governo indiano ha deciso di correre ai ripari di fronte alla “privatizzazione” di una dottrina così nobile e antica. A far scattare l’allarme è stata la scoperta che un numero crescente di posizioni yoga vengono brevettate da grandi guru che hanno un seguito di massa in Occidente. Uno di questi è Bikram Choudhury, forse il più celebre maestro emigrato in California. Vive a Los Angeles, tra i suoi allievi ha tante star del cinema di Hollywood, è diventato da solo una vera e propria industria. Quatto quatto, dal 2007 ha cominciato a depositare brevetti per ventisei posizioni che adesso si devono chiamare Bikram Yoga. Chi le usa nei corsi, nei libri o nei dvd, deve pagargli le royalties. Di fronte a questo e altri esempi di saccheggio commerciale dello yoga, il governo indiano ha mobilitato il suo Consiglio per la ricerca scientifica, ha fatto catalogare da sedici testi antichi milletrecento posizioni, ne ha videografate duecento e le ha protette con un copyright internazionale per impedire che finiscano in mani private.
La comunità indiana è attraversata da profonde divisioni, e non solo per il tradimento di personaggi come Bikram Choudhury. Un altro indiano famoso negli Stati Uniti, il filosofo aiurvedico Deepak Chopra, ha preso le distanze dai suoi connazionali, denunciando quello che secondo lui è un atteggiamento tipico da «nazionalismo indù». Secondo Chopra lo yoga è certamente un’espressione della civiltà indiana, ma non per forza della religione induista. Alcune pratiche originarie di questa disciplina risalgono alla civiltà vedica del terzo millennio prima di Cristo, antecedente l’induismo. Chopra, uno dei profeti della New Age, considera l’induismo come una religione «tribale e autoreferenziale» e vuole salvare lo yoga dall’abbraccio soffocante dei credenti.
Una parte dell’America denuncia il problema opposto. Per i cristiani fondamentalisti, come Albert Mohler del Southern Baptist Theological Seminary, il successo di questa disciplina pagana è un pericolo per le anime dei suoi connazionali. Giù le mani dallo yoga, sì, ma per tutt’altra ragione. Il sito All About Spirituality ammonisce i cristiani con questo avvertimento: «Lo yoga non è spiritualmente sicuro, perché c’insegna a focalizzarci su noi stessi, anziché sul vero e unico Dio». È una crociata bigotta (e con scarse chance di successo) eppure è difficile negare che contenga un fondo di verità . Dagli anni Sessanta in poi, le generazioni occidentali che hanno abbracciato con entusiasmo crescente lo yoga sono le stesse che hanno messo l’Io al centro dell’universo. E quando all’alba ci troviamo assieme sui nostri tappetini per preparare il saluto al sole, con le mani giunte sul petto, le gambe incrociate e gli occhi chiusi, il canto «Om» che si leva in coro è per molti di noi il primo rituale della fede in noi stessi.
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