Un’altra Italia
È stato Berlusconi ad annunciare che questo appuntamento elettorale era molto più che una contesa locale. È stato lui stesso a definire il voto di Milano «un test nazionale», e a trasformare di nuovo (come ha sempre fatto dalla mitica discesa in campo del ’94) la chiamata alle urne nell’ennesimo, titanico «referendum» sulla sua persona. Ebbene, la risposta degli elettori è inequivocabile. Il premier ha perso il suo referendum. E lo ha perso in modo clamoroso, subendo il colpo più devastante proprio nel cuore del suo sistema di potere. Nella città dove la favola era cominciata, e dove la destra forzaleghista ha costruito negli anni una roccaforte che pareva inespugnabile e un’egemonia che sembrava insuperabile.
Questo voto fotografa innanzi tutto una rovinosa sconfitta personale del premier. Berlusconi ha personalizzato l’intera campagna elettorale. Con una strategia chiara: killeraggio politico contro gli avversari nelle città , stato d’assedio permanente contro le istituzioni nel Paese. Mentre sparava parole come pallottole contro le toghe «cancro da estirpare» e contro il Quirinale «potere da ridimensionare», il Cavaliere è sceso in battaglia da capolista a Milano (mettendo la faccia e la firma persino sull’accusa vergognosa e violenta della Moratti contro Pisapia) ed è sceso in campo da tribuno a Napoli (rilanciando le sue colossali «ecoballe» sulla sciagura dei rifiuti, persino quella colpa dei «pm politicizzati»). La strategia non ha pagato. Di più, si è rivelata un suicidio, in entrambi i comuni sui quali il premier si è speso in prima persona.
Milano va al ballottaggio, per la prima volta dal ’97, con Berlusconi che vede più che dimezzati i suoi voti di preferenza rispetto alle comunali del 2006, il candidato del centrosinistra che è in vantaggio, il Pd che diventa primo partito della città . E con Pisapia che, a dispetto della bugiarda imboscata morattiana sul suo passato di «amico dei terroristi», viene votato in massa come unico e autentico esponente dei «moderati» nel capoluogo lombardo. Un vero e proprio «miracolo a Milano». E al ballottaggio va anche Napoli, dove Lettieri non sfonda nonostante i disastri del Partito democratico dalle primarie in poi.
Ma questo voto fotografa anche una sconfitta politica della maggioranza. Questa volta non perde solo Berlusconi. Al contrario di quanto accadde alle politiche di tre anni fa, i voti in uscita dal Pdl non sono stati drenati dalla Lega, che a Milano cede quasi 5 punti sulle regionali del 2010 e poco più di 3 punti sulle politiche del 2008. La vagheggiata Padania, invece di rafforzarsi ed espandersi, sbiadisce e restringe i suoi confini. A Torino stravince Fassino, a Bologna vince Merola, e capoluoghi importanti come Trieste e Savona, Varese e Pordenone, Rovigo e Novara, vanno al secondo turno. Il vento del Nord ha iniziato a cambiare direzione. E questo, per il Carroccio, è molto più che un campanello d’allarme.
Bossi non può dire, come aveva sussurrato prima del voto, «se la Moratti vince abbiamo vinto noi, se perde ha perso Berlusconi». Di fronte a questi dati, è l’intera alleanza forzaleghista che affonda. La Lega paga un prezzo altissimo alla sua metamorfosi, da partito di lotta a partito di governo. E paga un conto salatissimo a quel «vincolo di coalizione» che l’ha unita e la unisce al Pdl: ha sostenuto le campagne più odiose e onerose del Cavaliere, dalle norme ad personam alla guerra in Libia, e non ha ancora portato a casa il federalismo «realizzato». Quanto possono reggere le camicie verdi, ingabbiate dentro questo patto scellerato, e private dello spirito libero, rivoluzionario e pre-politico, grazie al quale hanno sfondato gli argini del Po dal 2001 in poi?
Ma questo voto fotografa anche la vittoria politica delle opposizioni. Di tutte le opposizioni. Il Pd esce dal voto con qualcosa in più del risultato che si aspettava. Bersani aveva detto: mi accontento di due vittorie piene (Torino e Bologna) e di due ballottaggi (Milano e Napoli). È andata esattamente così. Con un dato milanese che va al di là di tutte le aspettative: certo, almeno nel voto di lista dovuto più alla debolezza dell’avversario che alla forza dello sfidante. Ma un dato pur sempre sorprendente, che si accompagna ad una ripresa anche nelle altre città e province in cui si è votato. Con questi numeri, sarà difficile pretendere dal segretario una «verifica» sulla linea politica, come qualcuno aveva chiesto inopinatamente prima del voto. Con questi numeri, sarà opportuno che l’intero stato maggiore dei democratici coltivi il valore dell’unità e non più il rancore delle divisioni.
Il Terzo Polo di Casini e Fini, anche se ottiene un rendimento non esaltante dal punto di vista dei candidati, si consolida come ago della bilancia su scala nazionale. Esattamente quello a cui puntava: con il Centro, grande o piccolo che sia, bisogna scendere a patti, per vincere le elezioni. Anche se la diaspora all’interno di Futuro e Libertà non pare finita, e produrrà probabilmente altre dolorose rese dei conti.
Le altre forze a sinistra del Partito democratico crescono in modo significativo. Non solo l’Idv, con l’exploit di De Magistris a Napoli, ma anche Sinistra e Libertà di Vendola e i candidati «grillini» a Milano e soprattutto a Bologna. Qualche anima bella, soprattutto nel centrodestra sedicente «moderato», lamenterà ora il rischio di un preoccupante bradisismo elettorale verso le ali più radicali dell’opposizione. Ma che cosa c’è stato di più irriducibilmente estremista e tecnicamente eversiva, in questi mesi, se non la guerra totale condotta da Berlusconi contro tutti i suoi nemici?
E ad ogni modo, con questi risultati bisogna confrontarsi, prendendo atto che nel Paese un’ampia fetta di elettorato sente un bisogno di rappresentanza per una sinistra più solida e visibile, in quella metà del campo. In vista dei ballottaggi, questa vastissima area di opposizione è chiamata all’assunzione di una responsabilità forte, all’altezza del compito che gli elettori le hanno affidato. Si vedrà poi quali effetti potranno scaturire, a livello nazionale, da questa scomposizione e ricomposizione del fronte «anti-berlusconiano». Se cioè potrà esserci il rischio di riproporre sul mercato politico una copia sbiadita dell’improponibile Unione del 2006, o se potrà nascere su basi nuove e diverse quell’Alleanza costituzionale per la fuoriuscita dal berlusconismo, senza scorciatoie tattiche o contaminazioni ideologiche.
Ci sarà tempo per riflettere sul dato più generale di queste elezioni amministrative, che ci consegnano un Paese con un elettorato molto più saggio, più pragmatico e più fluido di come forse lo immaginavamo. Un elettorato che non affida cambiali in bianco a nessuno, nemmeno al Grande Imbonitore di Arcore. Che chiede fatti e non parole, soluzioni e non rappresentazioni. Un elettorato che non sembra affatto contento del bipartitismo imperfetto e improduttivo di questi anni e che, pur senza rinnegare le logiche del bipolarismo, guarda a orizzonti più ampi ed esige alleanze più larghe.
Ma intanto occorre prendere atto che quest’area di forte opposizione a Berlusconi esiste. Ed è vastissima. Forse è già maggioritaria, in questa Italia evidentemente non del tutto narcotizzata dal quasi Ventennio dell’anomalia berlusconiana. Un’Italia stanca di guerra, di tracotanze istituzionali e di prepotenze mediatiche, di abusi di potere e di leggi su misura. Un’Italia che non ne può più di un esecutivo indeciso a tutto e di un capo di Stato che incarna l’Anti-Stato. Anche la Lega non potrà non tenerne conto, nella fase che si apre di qui al termine della legislatura. Non si può più governare con l’Intifada azzurra di Berlusconi e con i Responsabili di Scilipoti. Il voto di ieri dimostra che questo Paese merita molto di più, e molto di meglio.
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