Un capo militare per la guerra. Così Al Qaeda ha scelto al-Adel

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Com’era prevedibile, arriva a poche settimane dalla morte l’indicazione del ” successore” di Bin Laden; sarebbe l’egiziano Seif al-Adel, capo del ramo operativo dell’organizzazione. Una nomina a tempo, funzionale alla ricostruzione di una catena di comando che non tollera vuoti gerarchici e, allo stesso tempo, mirata a sopire i contrasti tra gli “afgani”, quanti indipendentemente dalla loro nazionalità , combattono o hanno combattuto nel “Paese dei Monti” sovietici e americani, e il resto dell’organizzazione, articolata, da tempo, su base macroregionale. In particolare con Al Qaeda nella Penisola arabica, composta da sauditi e yemeniti che ritengono centrale la guerra agli “empi Saud” nella terra del Profeta e ai loro protetti nel Golfo anziché l’ormai trentennale jihad afgano. 

Nomina provvisoria perché, la sindrome da sicurezza che ha colpito i qaedisti dopo Abbottabad, ha inevitabilmente impedito alla shura di Al Qaeda di riunirsi e “trasmettere il carisma” al nuovo leader. Così gli “afgani” colgono l’occasione e indicano Adel. Consapevoli che aprire la strada, senza una consultazione larga, all’altro egiziano, il favorito Ayman al Zawahiri, avrebbe significato accentuare il conflitto interno con sauditi e yemeniti, ostili all’ideologo egiziano. Zawahiri è accusato di aver indotto l’organizzazione a schierarsi sul fronte del jihad globale mentre non era ancora matura la situazione e privilegiato lo scontro con il Nemico lontano anziché su quello vicino, con l’America invece che con i regimi dei paesi islamici suoi protetti. 
La scelta di Adel rappresenta una mediazione, mirata a mantenere la leadership nella regione dove si combattono apertamente gli americani. Il suo appartenere alla generazione di mezzo, quella dei cinquantenni, mette poi a tacere i giovani decisi a scalzare i “vecchi” sessantenni. Un compromesso che potrebbe essere almeno digeribile ai qaedisti del Golfo. Perché il suo essere egiziano, e dunque arabo, viene giocato per rintuzzare le critiche alla supposta deriva “asiatica” di Al Qaeda. Perché Adel è stato critico nei confronti dell’11 settembre; lo ha detto, senza troppe ambiguità  anche a Sheikh Mohammed, la mente dell’attacco all’America. Per il leader pro-tempore di Al Qaeda quell’operazione, divenuto il mito fondativo dello jihad globale, ha avuto un prezzo troppo alto: la fine del sicuro rifugio afgano, luogo ideale per fare affluire in massa i militanti di Al Qaeda, addestrarli e prepararli a una lotta meno condizionata dalla presenza in armi degli americani. 
Seif al-Adel si è forgiato nella “comunità  del fronte”. Vicino a Al Jihad, gruppo in cui militava anche Zawahiri, ha combattuto in Afghanistan, è stato in Sudan e poi ha risposto alla chiamata di Zawahiri tornando a Kabul. Dopo il 2001 è fuggito in Iran con l’aiuto del leader radicale Hekmatyar; qui è stato trattenuto, con altri militanti, dal regime di Teheran che degli uomini di Al Qaeda intendeva fare merce di scambio politico nel caso il confronto con gli Usa fosse precipitato. In Al Qaeda ha portato la sua esperienza di conoscitore delle tecniche militari e di intelligence apprese nella carriera di ufficiale nelle forze speciali egiziane, ambiente che sin dai tempi dell’assassinio di Sadat era infiltrato dagli uomini di Al Jihad. E’ accusato di aver partecipato alla preparazione degli attentati alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania. Un ruolo, quello di comandante militare, tanto più utile in una fase in cui, dopo l’eliminazione di Bin Laden e gli inevitabili mutamenti nei rapporti tra strutture profonde dell’Isi pakistano e qaedisti, indotti dalla crescente pressione di Washington su Islamabad, fanno pensare a una recrudescenza sul terreno della sicurezza e quello militare. 
Se poi Saif al Adel non fosse ritenuto all’altezza della successione, per eventuali deficit ideologici e religiosi, il gruppo storico potrebbe sempre far emergere il suo vero candidato: Zawahiri. Bloccando ancora una volta la strada a potenziali leader come l’imam yemenita Anwar al-Awlaki o il capo di Al Qaeda nella Penisola arabica Mohammed Al-Quso. Ai piedi dell’Hindu Kush la Terra del Profeta appare assai lontana.

 


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