by Editore | 22 Maggio 2011 7:04
MADRID – La marea sale ogni sera dopo il tramonto e riempie, ogni volta di più da una settimana, l’ampia vasca della Puerta del Sol, il chilometro zero da dove partono tutte le strade di Spagna. Durante il giorno gli indignados sono meno di un migliaio e si proteggono dal sole sotto una grande tenda accanto alla statua equestre di Carlos III ma quando scende la sera la piazza esplode e diventa impossibile camminare anche lungo le vie laterali.
Dall’altra sera l’happening è illegale perché alla vigilia del voto di oggi ogni manifestazione è proibita ma nessuno ha avuto il coraggio di sloggiarli. La determinazione dei giovani ha rotto i divieti e il ministro degli Interni, Rubalcaba, che è anche il più quotato candidato premier dei socialisti alle elezioni generali del prossimo anno, ha scelto il compromesso: «La polizia interverrà solo se ci saranno incidenti», ha detto, mentre allo scoccare della mezzanotte migliaia di mani aperte s’alzavano verso il cielo.
I politici sono storditi di fronte a questa protesta che s’allarga in tutto il paese fino alle piazze di Barcellona, Siviglia, Valencia, e che li mette al centro dell’ira popolare. «2011 System Update», «Aggiornamento del Sistema», si legge su uno striscione di stoffa nera e accanto: «La soluzione per il 50% dei nostri problemi? Vent’anni di galera ai politici corrotti». Per quanto ingenua negli obiettivi ed eterogenea nei partecipanti, questa spagnola è prima di tutto una rivolta contro caste e privilegi. Ieri sera un anziano signore, in giacca chiara e cappello, s’aggirava con un cartello: «Mi indigna che un deputato possa andare in pensione dopo 11 anni, io ho dovuto versare contributi per 37». Mentre Adriana, piccola imprenditrice quarantenne («Voto a destra», ci tiene a precisare), scende in piazza perché è stufa di «pagare tangenti».
Sotto la luna piena che riverbera nei vetri a specchio degli edifici più moderni ognuno espone il suo cartello. Contro la politica: «Senza il popolo non siete niente» e «La chiamate democrazia ma non lo è»; oppure ecologisti. «Ciò che consumi ha conseguenze sull’ecosistema»; giovanilisti: «Siamo stati figli delle comodità ma non saremo padri del conformismo»; economici: «Il mio stipendio finisce molto prima della fine del mese»; e perfino filosofici: «Penso, dunque disturbo».
Secondo Javier Moreno, il direttore di El Pais che ha i dati degli ultimi sondaggi sul voto di oggi, «accadrà come dopo il ‘68 in Francia, sarà la destra a vincere con un margine più ampio di quello già previsto ma sul lungo periodo nessun partito potrà prescindere dal movimento giovanile nato in questi giorni». La ragione è semplice: l’astensionismo aumenterà a sinistra, tra gli elettori disillusi del Psoe. «Ma – aggiunge Moreno – la protesta degli indignados ha generato così tante simpatie nella società spagnola che d’ora in poi i politici dovranno assumere la responsabilità di riavvicinare il sistema ai cittadini. «Non ci rappresentate», gridano in tutte le piazze del paese, e questa è una emergenza democratica che i partiti dovranno affrontare».
Al capolinea della stagione di “Bambi” Zapatero, il premier che dopo due mandati ha già annunciato che non si ripresenterà , il partito socialista è a pezzi. Senza risposte per i laureati che cercano lavoro, per i precari che gridano «offresi schiavo a 700 euro mensili», per i figli della classe media che studiano ma che già sanno di non avere prospettive. La crisi spagnola è implacabile: i disoccupati nel mese di maggio hanno sfondato il tetto dei 5 milioni, il 21,1% della forza lavoro. Cifra che diminuirà lievemente nei mesi estivi solo grazie ai lavori stagionali nel turismo.
L’imputato numero uno naturalmente è Zapatero, per due ragioni: la prima per le grandi speranze che aveva suscitato la sua doppia elezione, nel 2004 (dopo gli attentati dell’11 marzo, quando l’unica cosa che volevano gli spagnoli era ripudiare la politica bushiana di Aznar e ritirare i soldati dall’Iraq) e nel 2008; la seconda ragione per aver nascosto fino all’ultimo momento, due anni fa, l’ampiezza e la brutalità della crisi spagnola dopo l’esplosione della bolla finanziaria americana. Il successivo piano di austerity ha chiuso il cerchio condannando i socialisti ad una sconfitta elettorale ormai certa in queste elezioni amministrative e regionali dove rischiano di perdere dopo 32 anni il comune di Barcellona e un feudo storico, la città di Felipe Gonzalez – il leader socialista del post-franchismo – come Siviglia.
Ma quello che sta arrivando è anche peggio. Il centro destra che s’avvia a vincere le amministrative oggi e le politiche fra meno di un anno ha un solo programma: smantellare il welfare. Chiudere gli ospedali pubblici, dimagrire le pensioni, ristrutturare il sistema scolastico. Perché, ovvio, non ci sono fondi. Meno Stato più mercato. La più classica delle ricette per mantenere il paese in linea di galleggiamento e scongiurare l’incubo collettivo: una bancarotta all’Argentina.
Per gli accampati delle piazze di Spagna il passaggio delle elezioni di oggi è quasi superfluo. Non se ne disinteressano ma hanno altre prospettive. Sotto le tende hanno abolito l’alcool, creano commissioni di studio, preparano un «manifesto» di rivendicazioni nazionali. Per evitare che i mass media individuino tra loro un leader, solo a Madrid hanno nominato 36 portavoce («una vecchia tradizione anarchica», scrive El Pais), e continuano ad inventare slogan che scrivono dappertutto. L’ultimo: «Vogliamo un appartamentino come quello del principino», sbeffeggiando il principe Felipe, successore designato al trono di Juan Carlos. Oggi si vota e lunedì per la Puerta del Sol sarà il giorno della verità .
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