Tbc, Hiv e immigrati l’inutile allarmismo
“Tubercolosi, Hiv e migrazione: una reale emergenza?”. È il titolo di un convegno internazionale che si terrà all’Istituto superiore di sanità dopodomani. Il punto interrogativo è d’obbligo, dal momento che è necessario capire se l’aumento dei flussi migratori da Paesi ad elevata endemia possa aumentare la diffusione della Tbc nella popolazione italiana. Partiamo dai dati. In Italia (fonte, ministero della Salute) nel 2009 sono stati notificati 4.246 casi di Tbc (tasso 7,1 per 100mila abitanti), il 70% dei casi polmonare. I casi extra-polmonari, spesso associati all’infezione da Hiv, dopo il progressivo aumento delle decadi precedenti, tendono a stabilizzarsi, probabilmente grazie alle cure anti-Aids. Negli ultimi anni l’incidenza di tubercolosi sembra stabile, con una diminuzione negli ultra 65enni e un aumento nei giovani adulti. Il tasso di mortalità , riferito all’anno precedente, è ben al di sotto di 1 per 100mila. Cresce però la resistenza ai farmaci: circa il 10% dei micobatteri tubercolari è resistente all’isoniazide e il 4% alla rifampicina, entrambi farmaci di prima scelta, mentre il 3% è resistente a più farmaci.
Riguardo i rapporti fra Tbc e migrazione, il 47% dei casi sono non italiani, con raddoppio negli ultimi 10 anni. In genere sono giovani (età media 33 anni negli stranieri e 56 negli italiani) e in due terzi dei casi risiedono al nord. A differenza del passato, è più probabile che vengano dall’est Europa che non dall’Africa. Inoltre, se fino al 2007 oltre il 50% dei casi notificati in stranieri la Tbc insorgeva entro i primi due anni dall’arrivo nel nostro Paese, ora sono in netto aumento le diagnosi a cinque anni dall’arrivo in Italia. Ovvero, diminuisce il numero di persone che arrivano già malate.
Questi dati sono tranquillizzanti: almeno per ora, non ci sono segnali di aumento della circolazione dell’infezione tubercolare nella popolazione italiana con l’aumento dei flussi migratori da aree ad elevato rischio e della conseguente importazione di casi. L’incidenza nel nostro Paese si mantiene infatti ben al di sotto di 10 casi per 100mila (la soglia utilizzata per definire un paese a bassa incidenza). Per fare un confronto con altri paesi europei, il tasso per 100mila abitanti è 8 in Francia, oltre 16 in Spagna, 22 in Polonia, 27 in Portogallo, 38 in Bulgaria e 108 in Romania. Incidenze superiori nel Caucaso e nell’Asia centrale. Nessun allarmismo: il mixing di popolazioni è limitato e lo stato di salute degli italiani non favorisco lo sviluppo della malattia. Comunque è necessario rafforzare i sistemi di sorveglianza e controllo, monitorare l’esito dei trattamenti e la circolazione di ceppi resistenti, nonché favorire l’accesso alla diagnosi e alla terapia delle persone straniere.
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