by Editore | 31 Maggio 2011 7:04
Riesplodono in Cina le proteste etniche di minoranze che si sentono oppresse dal potere centrale. Da dieci giorni migliaia di persone invadono università , scuole, piazze e strade della Mongolia Interna, regione all’estremo nord del Paese. I mongoli sono in rivolta contro l’autoritarismo di Pechino e contro i privilegi degli «han», i cinesi accusati di essere gli unici a beneficiare della crescita economica. Ieri le autorità cinesi hanno schierato l’esercito nel capoluogo Hohhot e agenti in assetto anti-sommossa hanno isolato decine di città e villaggi. Da una settimana la regione, al di là della Grande Muraglia, è irraggiungibile a causa dei posti di blocco. Secondo Amnesty International Asia, in alcune aree è stata stabilita la legge marziale. Le forze dell’ordine impediscono agli studenti di entrare in scuole e atenei e centinaia di manifestanti sarebbero stati arrestati tra domenica e ieri.
Pechino è particolarmente nervosa. Siamo alla vigilia dell’anniversario della strage del 1989 in piazza Tienanmen e la capitale esce da mesi di tensioni per il terrore di un «contagio del virus democratico», come la propaganda del partito comunista definisce le rivoluzioni nordafricane. I leader del partito e del governo, impegnati nella lunga transizione del comando fino al 2012, temono in particolare lo scoppio di rivolte indipendentiste, come in Tibet nel marzo 2008 e nello Xinjiang nel luglio 2009. Nella Mongolia Interna il fuoco è divampato da episodi casuali. Ai primi di maggio un giovane mongolo è morto in una miniera di carbone, proprietà di cinesi «han», che non rispettava le più elementari norme di sicurezza. Il 10 del mese un pastore mongolo di nome Mergen è stato travolto e ucciso da un camion guidato da un altro cinese «han». Il fatto che procura e polizia non siano intervenute contro i responsabili, ha accesso la miccia di proteste che covano da anni.
L’epicentro della rivolta è la città di Xilinhot, capoluogo della contea di Xilingol. Qui ieri mattina una folla enorme, sventolando bandiere con i colori della Mongolia, ha cercato di raggiungere i palazzi governativi. Inviti online a emulare le insurrezioni arabe sono stati oscurati nella notte. Secondo organizzazioni non governative presenti sul posto, l’esercito ha caricato i manifestanti e ci sarebbero alcuni feriti. A tarda sera il governatore cinese della regione, Hu Chunhua, ha incontrato i rappresentanti dei ribelli, promettendo di «fare giustizia». Due cittadini «han» sono stati arrestati per le morti in miniera e sulla strada. Il resto della Cina è all’oscuro della sommossa. La censura ha bloccato ogni notizia su Rete e media, mentre su internet il toponimo «Mongolia Interna» risulta bloccato. Nella regione ribelle vivono ventiquattro milioni di persone, di cui il 17% mongoli e il 78% cinesi «han». I primi esortano ora Pechino a «rispettare i diritti umani, la vita e la dignità dei mongoli».
I valori universali sono però solo una parte dello scontro. La Mongolia Interna si sta rivelando uno straordinario serbatoio di materie prime, oltre che il passaggio naturale delle nuove condotte di gas e petrolio estratto nella Russia siberiana. È un tesoro di cui da tempo sembrano godere solo i cinesi inviati da Pechino nelle posizione chiave. La popolazione nativa si sente discriminata e non è un caso che i primi a invadere le piazze siano stati gli studenti e i pastori, esclusi dal boom economico nazionale. Pechino è decisa a reprimere e a far cessare subito le proteste, per evitare che i moti di mongoli, tibetani e uiguri possano saldarsi con lo scontento che monta anche in fabbriche e campagne, dove la gente vede arricchirsi solo pochi affaristi e i funzionari del partito.
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