Strategia europea per la crisi greca

by Editore | 14 Maggio 2011 7:26

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È la matematica a dire che la ristrutturazione del debito greco è sempre più probabile. La variazione nel tempo dello stock di debito in rapporto al Pil dipende dall’avanzo/disavanzo primario (la differenza tra imposte e spesa pubblica prima degli interessi) e dal cosiddetto “effetto valanga” (la differenza tra l’onere sul debito e la crescita del Pil a prezzi correnti). Con la crescita limitata dalla politica di austerità  e dalla bassa competitività , e l’inflazione calmierata al 2% dalla Bce, il Pil nominale della Grecia non potrà  crescere più del 4%. Se anche il costo del suo debito scendesse al 6% , molto inferiore a quello attuale, e non più di 3 punti superiore a quello tedesco, ci vorrebbe un avanzo primario del 6% l’anno per trent’anni per portare il debito greco al 60% del Pil; “solo” 22 per scendere all’80%. Irlanda e Portogallo sono in una situazione similare. Non è realistico che paesi già  in difetto di competitività  e senza la possibilità  di svalutare, sopportino così a lungo i costi sociali di politiche di austerità  così drastiche. 
Le possibilità  sono due. La prima è che i paesi dell’Eurozona con alto merito creditizio, Germania e Francia in primis, garantiscano direttamente, emettendo bond europei, o indirettamente (chiedendo al nuovo Fondo di Stabilità , da loro garantito, di ritirare il debito degli stati in crisi) il finanziamento a tassi bassi di Grecia, come di Irlanda e Portogallo. Di fatto trasformerebbe l’unione monetaria in unione fiscale: ma presuppone un consenso politico che oggi manca. 
La seconda è un colpo di spugna su una grossa fetta del debito pubblico greco, attraverso una qualche ristrutturazione: consolidamento; moratoria degli interessi; o swap del vecchio debito col nuovo. Sarebbe molto oneroso per la Grecia che, non potendo poi accedere al mercato dei capitali, dovrebbe finanziare l’intera spesa pubblica con le tasse. Una prospettiva però non molto diversa da quella attuale. 
Il taglio del valore del debito pubblico provocherebbe il fallimento di molte banche greche; e gravi perdite alle banche francesi e tedesche, esposte complessivamente verso la Grecia per 90 miliardi (305 se aggiungiamo Portogallo e Irlanda): un grave shock per il sistema bancario dell’Eurozona, col rischio di una nuova crisi di liquidità . Per questo (e per evitare gravi perdite sui titoli ricevuti in garanzia dalle banche dei paesi a rischio) la Bce si oppone con forza. Ma se Germania e altri paesi dell’Eurozona non sono disposti a finanziare a oltranza i paesi in crisi, non ci sono alternative. I prestiti accordati, la costituzione del nuovo Fondo di Stabilità  e le misure di austerità  concordate fin qui non sono bastati neppure ad arginare la crisi di fiducia: il costo del debito greco e degli altri paesi ad alto rischio ha continuato a salire. Non sorprende: essendo una crisi di solvibilità , e non di liquidità , i finanziamenti non risolvono il problema, ma lo rinviano, rischiando di aumentarne il costo. 
Ci sarebbe una terza via: l’uscita in qualche modo dall’euro della Grecia. Ma è la più costosa per tutti e, quindi, la meno probabile. La Grecia non eviterebbe una recessione; le sue banche fallirebbero comunque; lo shock per il sistema bancario europeo sarebbe anche maggiore; le imprese tedesche perderebbero la competitività  accumulata; l’euro sarebbe a rischio; e i costi politici sarebbero ingenti per tutti.
Il problema è politico, non finanziario. Complessivamente, il debito pubblico dell’Eurozona è pari all’88% del suo Pil: meno di Usa, UK o Giappone. Sarebbe gestibile. Con l’euro, il debito di un paese finisce nei portafogli di tutta l’Eurozona. Ma senza unione fiscale non c’è accordo politico sulla redistribuzione dell’onere del disavanzo dei paesi, nel caso il mercato dei capitali si rifiutasse di finanziarlo. È un difetto di fabbricazione dell’euro. Ora non ci sono i tempi per aggiustarlo. Ecco perché l’ipotesi ristrutturazione diventa ogni giorno più probabile; che non significa auspicabile, o priva di costi e di rischi. Così, invece di negare l’innegabile, i governi europei farebbero meglio a pensare a un piano B, per trovarsi preparati, nell’eventualità  di una ristrutturazione, a mitigarne i costi.

 

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