by Sergio Segio | 24 Maggio 2011 9:32
In Italia in carcere si muore. Alcuni sono suicidi, altri no. “Un uomo che perde la vita in prigione – scrivono Luigi Manconi e Valentina Calderone in Quando hanno aperto la cella – è il massimo scandalo dello Stato di diritto”. Ma allora perché in carcere si continua a morire? E perché dietro alle vicende di Stefano Cucchi e delle altre persone raccontate nel libro (edito da Il Saggiatore) continuano ad ergersi fitte reti di coperture? Ne abbiamo parlato con Luigi Manconi.
Il vostro libro, come scrive Gustavo Zagrebelsky nella prefazione, “è una scossa alla coscienza”. In queste pagine si raccontano storie di persone che entrano in carcere, in caserma, o nei reparti psichiatrici, e ne escono morte. Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino: un elenco di vicende più o meno conosciute ma troppo in fretta dimenticate. Perché è la rimozione, come si sostiene nel libro, l’atteggiamento comune della società nei confronti del carcere. Questo lavoro è un esercizio di memoria o anche un atto di denuncia?
Questo libro racconta molte storie sconosciute, soprattutto nei dettagli. Sono pagine di approfondimento rispetto a vicende che risalgono anche ad alcuni decenni fa, a partire ad esempio dalla morte di Pinelli. Si tratta di una ricostruzione biografica e giudiziaria di storie, circa una ventina, che hanno attraversato la storia recente italiana. È un libro di narrativa e di analisi, nel senso che l’analisi storico sociologica si sviluppa a partire da storie di vita, cioè da percorsi esistenziali che non vengono considerati solo nel loro esito finale, ovvero la privazione della libertà , le violenze e la morte, ma anche nella fase precedente, nel tentativo di ricostruire la rete degli affetti, l’ambiente famigliare e le domande di vita: non solo, insomma, l’agonia e la morte. È difficile dire se poi nel libro prevalga la denuncia o la memoria, siamo in presenza di una sequenza che non può essere isolata in diverse parti. Di certo c’è una denuncia che vuole impedire che su molte vicende, alcune recenti, alcune più antiche, cali il silenzio, ma la denuncia e la memoria sono sostanzialmente finalizzate ad uno stesso discorso, che è quello pubblico. Non abbiamo scritto un libro “sul carcere”, intanto per una ragione sociologica, dato che in queste pagine non parliamo solo di carcere, ma parliamo di luoghi della privazione della libertà , che vanno dai Cie ai reparti psichiatrici, nei quali persone che non hanno commesso alcun reato vengono sottoposte al trattamento sanitario obbligatorio e trovano la morte. Ma questo non è nemmeno un libro sulla marginalità sociale. Piuttosto, è un libro sulla democrazia, nel quale si tenta di dire perché il nostro Stato di diritto funziona così male e perché questo si traduce in un deficit di democrazia.
Nel primo capitolo del libro lei scrive che il fondamento del patto sociale sta nel rapporto tra la “nuda vita” del cittadino e la sua capacità di protezione da parte dello Stato: ecco perché qualunque persona finisca sotto la tutela dello Stato deve essere considerata “sacra”. Ed ecco perché un uomo che muore in prigione dovrebbe essere vissuto come il più alto degli scandali. Perché dietro alle vicende di Stefano Cucchi e delle altre persone raccontate in queste pagine continuano allora ad ergersi fitte reti di coperture?
Perché lo Stato pensa di dover salvaguardare la propria autorità rinserrando le fila, perché pensa che non si debbano lasciare aperti spiragli alla critica e ritiene che non si possa mettere in discussione l’onore delle istituzioni. E con ciò si fa un terribile errore, perché per salvare dal giusto processo un membro delle forze dell’ordine si rovescia quella responsabilità che è individuale e personale sull’intera struttura delle forze dell’ordine. Quando non si rimuove un funzionario di uno Stato che commette illegalità si fa precipitare tutta l’istituzione nella stessa illegalità , quando per salvare l’onore della divisa non si perseguono gli abusi commessi dal singolo che quella divisa indossa, l’onore della divisa viene macchiato: ecco che quindi si arriva ad un drammatico paradosso, per cui per salvare singoli responsabili si condanna l’intera istituzione. E proprio in ragione di questo paradosso la stessa istituzione fa della copertura e di quel meccanismo che purtroppo va definito col termine “omertà “, una sorta di “cultura ambientale”. All’interno degli apparati dello Stato la cultura dominante è proprio quella della copertura dei singoli, e così, oltre a non assicurare alla giustizia chi si rende personalmente responsabile di reati, si allarga quella responsabilità all’intera istituzione.
Il titolo del libro si rifà ad una canzone di De Andrè, il cui protagonista, Michè, che si uccise in carcere, aveva commesso un omicidio. L’idea che le vittime, in quanto colpevoli di un reato, o anche in quanto persone tossicodipendenti, alcolizzate, ai margini della società , se la siano “andata a cercare”, rafforza quest’omertà ?
L’incapacità della società a tutelare i diritti delle vittime parte da un equivoco che può rivelarsi tragico: non è affatto vero che coloro che “se la vanno a cercare” siano poi tutti e allo stesso modo emarginati, tossicodipendenti, alcolizzati. Tra le tante storie che nel libro raccontiamo emerge la vicenda di due persone che si sono rese responsabili, al più, di una contravvenzione, di una multa presa in seguito ad una notte di ubriachezza. La diffusione del paradigma “se la sono cercata” è fondata su una forzatura di dati, ovvero su un falso. È chiaro che si tratta di una realtà che funziona egregiamente, perché il meccanismo “se la sono cercata” è profondamente suggestivo, agevola e giustifica la rimozione. Ma le biografie che nel libro si raccontano riportano ben altre storie.
Negli istituti di pena italiani ci si uccide oltre 17 volte di più di quanto si faccia fuori dalle carceri. Ma nel libro si denuncia come sia in forte aumento anche il numero dei suicidi tra gli agenti penitenziari: perché il carcere, oggi, produce morti non solo tra chi espia la pena?
All’origine c’è un dato “strutturale”: all’interno di un luogo fisico, materiale, murario, destinato ad accogliere 43mila persone, oggi ce ne sono 24mila in più. Lo spazio minimo che ogni individuo deve poter aver a disposizione, già scarso in origine, si riduce a un terzo. Questo addensamento questa promiscuità colpiscono i detenuti ma anche il personale, e gli agenti penitenziari in maniera ancora più diretta, perché sono loro ad avere una relazione quotidiana assidua e stretta con la popolazione detenuta. La vita dei detenuti si deteriora, ma anche il lavoro della polizia si deteriora: ogni movimento e ogni attività diventano più faticosi, “sudati”, ogni servizio, a chiunque sia destinato, in queste condizioni è meno efficace, è peggiore di quello che potrebbe essere. Ecco che l’intero sistema si frantuma, decade, produce miseria, sofferenza, solitudine e crisi, e da questa crisi alcuni, agenti inclusi, trovano come via d’uscita solo l’autolesionismo.
Il libro evidenzia come a far da tramite tra la vittima e l’opinione pubblica ci sia spesso una donna. Ilaria Cucchi, Patrizia Aldovrandi, Maddalena Lorusso, Caterina Mastrogiovanni e le tante altre donne citate nel libro sono state capaci di far sì che il loro dolore più intimo e privato diventasse risorsa pubblica, collettiva. Perché ciò accade?
Mi stupisco del fatto che finora questo tema non sia stato approfondito. Mi sono imbattuto in questa constatazione già anni fa, incontrando l’associazione dei famigliari delle vittime di Ustica, che era guidata da un leader donna. Ma, andando anche più indietro nel tempo, in tutte le vicende di mafia e di lotta alla criminalità la figura più intensa di testimone è rappresentata da una donna, che sia madre, figlia, moglie, sorella. E ancor prima, negli anni 70, a Milano, si formò un comitato che si chiamava “Delle madri del Leoncavallo”, che si riuniva intorno all’uccisione di due giovani che frequentavano un centro sociale. Questo impegno, questa determinazione, questa forza femminile ci pare molto affascinante, direi straordinaria dal punto di vista storico e sociale. Si tratta di vicende che rimandano all’Antigone di Sofocle, ma rispetto all’Antigone la differenza è drastica: Antigone opponeva le ragioni del cuore alla ragion di Stato, qui Ilaria Cucchi o Patrizia Aldrovandi, ma anche altre decine di donne, non oppongono la ragione del cuore, piuttosto oppongono alla ragion di Stato male intesa la loro ragione di cittadine. Il loro dolore privato si fa rapidamente coscienza civile: la sofferenza più intima diventa in tempi molto stretti un’assunzione di responsabilità sociale e dunque la capacità di tradurre quel dolore privato e intimo in una risorsa pubblica si rivela capace di condizionare il sistema dei media e la sfera politica. Dietro a queste storie si cela una profonda motivazione antropologica che noi abbiamo appena cominciato a indagare: la donna custode del fondamento affettivo della comunità famigliare è anche quella si muove per tutelare coloro che da quel fondamento affettivo dipendono: è quel legame direi intimo e naturale che suggerisce la forza e fornisce parole che si fanno risorsa di mobilitazione. In questi giorni stiamo lavorando con una giovane donna che è la nipote di Francesco Mastrogiovanni, della cui vicenda si racconta nel libro. E il suo impegno, come quello delle altre donne, va approfondito ed è di straordinaria importanza, perché svela la profondità ancestrale del legame che unisce i membri della stessa comunità . Un legame che è affidato alla figura femminile, quella più domestica, perché sia custodito e riprodotto nel tempo, e che diventa poi, per un felicissimo paradosso, il mezzo per uscire dalla dimensione domestica e parlare nell’agorà , per affrontare media e politica.
(Federica Grandis e Manuela Battista)
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