Sangue, stupri e fanatismo il generale dell’orrore che si credeva onnipotente

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«Scannate il maiale» ordinò ai suoi, prima di iniziare le trattative con i Caschi blu di Srebrenica. L’animale era stato trascinato apposta dalle montagne fin nel cortile vicino, e le urla riempirono tutta la valle. Ovviamente il porco era un avvertimento ai musulmani. «Voi circoncisi verrete dopo», significava. Così gli ottomila reclusi maschi di Srebrenica capirono la loro morte imminente. Anche i tremebondi Caschi blu olandesi capirono e, prima che le mezzene fossero appese, accettarono le condizioni senza batter ciglio. Fu lì, nel luglio del 1995, che l’Europa perse la faccia e l’onore.

Prima di cercare in qualche dannazione genetica il ruolo assassino di Ratko Mladic, comandante in capo delle truppe serbo-bosniache negli anni del massacro, meglio ricordare che la sua strapotenza è soprattutto il risultato di una fenomenale vigliaccheria di parte occidentale. Perché poi fatalmente accadrà  che, dietro a questo superlatitante con taglia da sei milioni di dollari sulle spalle, scopriremo – come già  accaduto con Radovan Karadzic, il suo referente politico in galera all’Aja – la banalità  di un uomo qualunque, probabilmente un mediocre sbattuto nel ruolo più dal caso che da innate capacità .
Mladic nasce nel marzo del 1942 in un villaggio tra le montagne a Sud di Sarajevo. Due anni dopo suo padre Nedja viene ucciso in un combattimento contro le forze nazionaliste croate, alleate ai nazi-fascisti. Solo molti anni dopo, durante la guerra etnica che squarterà  la Jugoslavia, il generale cercherà  nell’evento un segno del destino e il pretesto per un regolamento di conti. «Mio figlio – dirà  – è il primo serbo di molte generazioni che ha fatto in tempo a conoscere suo padre». Un modo per evocare una persecuzione secolare contro il suo popolo.
Di certo oggi il figlio di Mladic conosce suo padre, ma nessuno sa dire se voglia riconoscersi in lui, dopo quanto è accaduto. Soprattutto dopo la morte della sorella Ana, l’altra figlia di Ratko, che si è tolta la vita nel 1994. Ana aveva appena perso il fidanzato in guerra, e rimproverava al padre di non aver fatto nulla per tenerlo lontano dalla prima linea. Soffriva anche, dicono quelli che la conobbero, la vergogna per quanto accadeva nella sua terra, la Bosnia. Parenti, amici, compagni di scuola, finiti in un tritacarne di sangue e fanatismo.
Ma torniamo alla storia. Ratko entra nell’Armata federale jugoslava già  a 16 anni. L’essere orfano di guerra lo aiuta, ma non fa una gran carriera. E’ frustrato, dicono, perché altri vanno più veloci di lui. Nel 1991 è ancora comandante di brigata nei poco quotati “Pristina Korps”, destinati a un ruolo di repressione in Kosovo, la prima miccia del grande disordine. Ma dopo la secessione slovena la Croazia si incendia e, nel caos che segue, Mladic trova le condizioni ottimali per raggiungere in fretta i suoi obiettivi.
Da neutrale fra le etnie, l’Armata diventa rapidamente filoserba. Si schiera nelle province ribelli della Croazia, già  armate da Belgrado, con la scusa di dividere i contendenti, ma è una farsa, e Mladic lo capisce in anticipo. Ordina di sparare su civili croati, viene sconfessato da un soldato zagabrese, ma si salva esibendo documenti falsi. «Non sono io quello», giura come Simon Pietro. Prima di gettare la maschera, si nasconde dietro molte identità  e i servizi segreti sono con lui.
Nell’Armata emergono gli incolti, i primitivi, i fanatici. I migliori, come Jovan Divjak che poi difenderà  Sarajevo proprio da Mladic, si dimettono o fanno sparire le tracce. E intanto il nostro ufficiale rampante emerge tra gli esecutori della distruzione di Vukovar, città  croata sul Danubio. E’ l’autunno del ‘91, il primo urbanicidio europeo dopo il 1945. Civili massacrati, morti insepolti per le strade. Soldati che tornano da quel fronte solo per finire in reparto psichiatria. E’ la prima volta che hanno visto un massacro tra popoli fratelli di uno stesso Paese.
Mladic non si pone problemi. «La mia attitudine è l’attacco» dichiara al New York Times, e nell’inverno successivo, con la guerra croata in stallo, muove segretamente i panzer verso Sarajevo, senza che in zona vi sia accenno di ribellione. L’alibi è sempre quello di prevenire la guerra. Ma a Belgrado il grande burattinaio Milosevic ha già  deciso che è quello l’obiettivo, e Zagabria è d’accordo. Si tratta di spartire la Bosnia fra Serbia e Croazia, e di sterminare i “turchi”. Gli slavi, cioè, che al tempo degli ottomani hanno accettato, più che la religione, la cultura d’Oriente. E nell’aprile 1992 inizia, attorno a Sarajevo, il più lungo assedio della storia del ventesimo secolo.
Ora diventa il braccio armato di Karadzic, lo psichiatra manipolatore di anime messo da Belgrado a capo dei serbo-bosniaci. E’ comandante supremo, e ordina di bombardare senza sosta la città  disarmata, un martirio da duecento a mille granate al giorno. I cecchini non danno tregua. Viene tagliata l’acqua e la luce. Si lascia solo qualche varco, per speculare sulla fame e alimentare il mercato nero, e intanto si mette in moto una rapina organizzata su scala industriale. Un imbroglio mascherato da guerra santa.
Intanto si accumulano le accuse. Assassinio, stupro, tortura, rapina, deportazione, trattamento inumano di civili e altro ancora. Ma il super-generale, che ora sfoggia un kepì verde orlato di foglie d’oro, dichiara: «Difendere il proprio popolo non è crimine, è sacro dovere». Riempie quaderni e quaderni di pensieri banali e deliranti. Viene intervistato da illustri corrispondenti stranieri. Il popolo lo ama, ha ciò che non ha mai avuto in vita sua. Proclama di proteggere l’Europa dal fondamentalismo islamico. Non lo sfiora il sospetto di suscitarlo con le sue stragi.
Quando l’orrore finisce, lo scaricano. Belgrado non ha più bisogno di lui. Viene destituito, si ribella, grida che solo il suo popolo può rimuoverlo, poi cede. Ormai è un ricercato e la Serbia, che pensa già  a un ingresso nell’Ue, non può permettersi di proteggerlo apertamente. Così scompare nel nulla. Ma ha i suoi amici e diventa una Primula Rossa. Lo danno per morto, poi lo fotografano mentre gioca a tennis. Lo vedono in Russia e in Montenegro, ma è banalmente in Serbia, come Totò Riina in Sicilia.
Mentre si riaprono le fosse comuni a Srebrenica e dintorni e all’Aja si riempie un super-dossier su di lui, Mladic fa arrivare una dichiarazione di sfida: «Non mi prenderete. E’ la gente che mi protegge. Sono protetto dalla mia reputazione e dal mio sacrificio personale in questa guerra». Ha conosciuto la codardia degli occidentali, sa che non verranno mai a prenderlo. Quello che non immagina è che saranno proprio i suoi serbi a tradirlo.

 


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