Rotta Libia-Lampedusa: un morto ogni 11 migranti. Mai così tante vittime

by Sergio Segio | 24 Maggio 2011 11:03

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TORINO – In vent’anni di sbarchi, non si era mai visto niente di simile. Dall’inizio dell’anno è una strage senza precedenti. Sono già  almeno 1.408 i nomi che mancano all’appello. Uomini, donne e bambini annegati al largo di Lampedusa. In soli cinque mesi. E senza considerare tutti i naufragi fantasma, di cui non sapremo mai niente. Da gennaio sono scomparse più persone di quante ne morirono in tutto il 2008, l’anno prima dei respingimenti, quando si contarono 1.274 vittime a fronte di 36 mila arrivi in Sicilia. E se ai morti del Canale di Sicilia si aggiungono le vittime delle altre frontiere calde del Mediterraneo, ovvero lo stretto di Gibilterra e le isole greche dell’Egeo, il bilancio sale a 1.510 vittime nello stesso periodo. I dati sono stati diffusi dall’osservatorio Fortress Europe, che monitora costantemente le notizie sulla stampa internazionale relative alle vittime dell’emigrazione nel Mediterraneo.

Fortress Europe offre anche una lettura dei dati. Scorporando infatti le cifre degli arrivi dalla Tunisia e degli arrivi dalla Libia, si ottiene un’immagine ancora più allarmante. Dall’inizio dell’anno infatti a Lampedusa si incrociano due rotte. Da un lato quella tunisina, che ha portato circa 25 mila tunisini sull’isola, e dall’altro quella libica su cui hanno viaggiato finora circa 14 mila persone. Bene, di quei 1.408 morti – secondo i dati di Fortress Europe – soltanto 187 sono annegati sulla rotta tunisina. Mentre sulla rotta libica i morti sono addirittura 1.221. Come dire che sulla rotta tunisina ne muore uno su 130 mentre sulla rotta libica ne muore uno su 11. Dodici volte di più.

Una differenza apparentemente inspiegabile, a cui però corrisponde una differenza nelle modalità  organizzative delle traversate. Mentre infatti dalla Tunisia molti equipaggi si organizzano in modo autonomo e quindi prestando attenzione a un minimo di accorgimenti per la sicurezza del viaggio, in Libia invece sempre le traversate sono organizzate direttamente dal regime, la cui unica preoccupazione è spedire in Italia il maggior numero di persone come ritorsione per i bombardamenti. I passeggeri sono rastrellati nei quartieri africani delle città  ancora controllate dal regime e costretti a partire. Con il buono o col cattivo tempo. (gdg)

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Il “naufragio fantasma” sulla rotta libica: 320 i morti a Zuwara

Finora la stampa non ne ha mai parlato, ma la storia è confermata da un testimone oculare. La notte del 28 aprile 2011 un peschereccio libico con 320 passeggeri a bordo, si è spezzato in mare per il sovraccarico ed è affondato

TORINO – Naufragio fantasma sulla rotta libica. Finora la stampa non ne ha mai parlato, ma la storia è confermata da un testimone oculare. La notte del 28 aprile 2011 un peschereccio libico con 320 passeggeri a bordo, salpato dal porto di Zuwara e diretto a Lampedusa, si è spezzato in mare per il sovraccarico ed è affondato nel mare in tempesta. Nessuno dei 320 passeggeri si è salvato. Ma qualcuno ha visto tutto. Si chiama Kinsgley ed era a bordo di una seconda imbarcazione che navigava da ventiquattr’ore a fianco della barca poi affondata. Erano salpate insieme dal porto di Zuwara alle sette del mattino del 27 aprile 2011. Trasportavano 600 africani, 320 su una e 280 sull’altra. Tutti imbarcarti con la forza, dopo essere stati rastrellati dalle milizie di Gheddafi nei quartieri neri di Misrata, Tripoli e Sabrata.

Kinsgley oggi vive in un centro di accoglienza del nord Italia. E ci ha raccontato come sono andate le cose quella notte. Il tempo all’inizio era buono. I due pescherecci navigavano affiancati uno all’altro, verso nord. Ma già  prima del tramonto il cielo si oscurò e il mare si fece grosso.

“Eravamo in mezzo alla tempesta, la barca ogni volta che andava giù sembrava sprofondare nel mare, eravamo circondati da montagne di acqua, e le onde sbattevano sul ponte. Eravamo tutti fradici e infreddoliti, al buio. A un certo punto abbiamo sentito gli altri iniziare a gridare. Dicevano ‘Aiuto, aiutateci! Si rompe! Si rompe!’. Sentivamo quelle grida in mezzo all’oscurità , senza capire da dove provenissero, se fossero davanti, a destra o a sinistra. Non vedevamo niente. C’è stata una grossa discussione a bordo. Alcuni dicevano che dovevamo aiutarli. Altri facevano notare che non c’era neanche il posto per noi a bordo, dove li avremmo messi? Rischiavamo di morire tutti per andarli a salvare”.

Alla fine decisero di non intervenire e di allontanarsi per evitare di schiantarsi contro l’altra imbarcazione. La scena che videro alle prime luci dell’alba era terrificante.
“Il mare era cosparso di pezzi di plastica, sacchetti, vestiti, jilet di salvataggio. E in lontananza abbiamo visto anche dei corpi a galla ondeggiare. La barca si era spezzata ed era colata a picco portandosi con sé tutti i 320 passeggeri. Nessun superstite. Eravamo terrorizzati, e per non cadere nel panico, abbiamo deciso di passarci alla larga per non vedere tutta la scena del massacro.” (gdg)

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“Ma quali viaggi della speranza: Gheddafi ci ha costretti a partire”

Prima i rastrellamenti nei quartieri africani di Tripoli, poi l’imbarco con la forza sui vecchi pescherecci diretti a Lampedusa. La storia di Kingsley arrestato a Misrata e imbarcato per l’Italia con tutta la famiglia

TORINO – Arrestati nei quartieri africani di Tripoli dai soldati di Gheddafi e costretti con la forza a imbarcarsi per Lampedusa. Il biglietto è gratuito, offre il regime. Altro che viaggi della speranza, le traversate del Mediterraneo assomigliano sempre di più a una vera e propria deportazione di massa degli africani dalla Libia. Organizzata in modo sistematico dalle forze armate della dittatura. Un sistema ormai rodato che è già  riuscito a espellere in Italia 14.000 persone in tre mesi. L’idea è semplice: usare i corpi di uomini, donne e bambini come chiara ritorsione contro i bombardamenti in Libia.

“Ci puntavano il kalashnikov addosso – racconta Kingley, approdato a Lampedusa il primo maggio scorso – , non potevamo fare domande. Siamo saliti nel container senza neanche sapere dove ci stessero portando.” Kingsley fa parte della comunità  camerunese di Misratah. Ha vissuto l’assedio, è rimasto settimane bloccato in un quartiere teatro di duri scontri a fuoco tra militari e ribelli. Ogni notte sparavano, e quando non combattevano era pure peggio. Perché salivano i militari ubriachi a prendersi le donne. All’Italia, Kingsley non aveva mai pensato. Voleva mettersi in salvo con la sua famiglia. Ma aveva scelto l’Egitto come terra sicura. Ci aveva provato due volte. Ma era sempre stato respinto dai militari di Gheddafi. Gli stessi che la notte del 26 marzo hanno organizzato il rastrellamento degli africani di Misrata.

“Siamo stati tra i primi a essere prelevati dalle nostre case. All’inizio nel camion eravamo pochi. Poi man mano saliva altra gente. Alla fine saremo stati almeno duecento. Rinchiusi al buio. Appiccicati in piedi uno all’altro. Faceva caldo, puzzava e i bambini piangevano.”

Quella notte dalla città  è partito un intero convoglio. Kingsley ha contato il numero dei mezzi durante una sosta nel deserto. Tre camion container, scortati da tre blindati dell’esercito e tre fuoristrada con l’antennone per le comunicazioni radio e le bandiere verdi di Gheddafi al vento. Almeno cinquecento persone, tutti prelevati con la forza dalle loro case. Lungo la strada il convoglio si è allungato. Due camion si sono aggiunti a Tripoli e un terzo a Sabrata. Cosicché una volta arrivati alla destinazione finale, Kingsley ha contato sei camion. Almeno 900 persone scaricate in fretta dai container e rinchiuse in un’area controllata dai militari.

“Siamo rimasti lì un mese e cinque giorni. Era una vecchia casa pericolante, fuori dalla città  di Zuwara. E c’erano militari dappertutto. Avevano la fascetta verde al braccio, erano militari di Gheddafi. Sono sicuro. Dentro saremo stati un 1.500 e c’erano tantissimi bambini. Non ti dico lo sporco! Ogni giorno arrivavano nuovi camion e partivano altri. E là  abbiamo capito che saremmo andati in Italia. Un giorno ci hanno portato al porto di Zuwara, di notte. Ma abbiamo dovuto aspettare l’alba per partire, perché c’erano gli aerei della Nato che sorvolavano la città . E i militari ci avevano ordinato di nasconderci. L’indomani ci hanno diviso: 320 su una barca e 280 sull’altra. Avevamo paura di morire in mare, ma non avevamo scelta, avevamo i fucili puntati addosso”

Quel giorno era il 27 aprile. Prima di partire, i militari al porto scherzando gli hanno detto che era stato Gheddafi a dare l’ordine, che tutti gli africani ora dovevano andare in Italia. E senza pagare. E infatti la famiglia di Kingsley non ha pagato un centesimo. Un ultimo gesto di magnanimità  del colonnello. Per la morte in mare, offre il regime. (gdg)

 

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