Ritorno a Fukushima
TAMURA – «Nella grande palestra, assieme agli altri sfollati, mi stavo ammalando. Le gambe mi facevano male, perdevo le forze, avevo smesso di mangiare; era lo spirito che voleva abbandonarmi. Lo so, la centrale è dietro quelle colline, ci sono radiazioni dappertutto. Ma io sono tornata a casa: è qui che sono cresciuta, è qui che voglio morire. Tra le mie cose». Seduta su un triciclo elettrico, il fazzoletto bianco stretto in testa, il capo leggermente piegato, il sorriso amaro, l’anziana contadina allarga le braccia e ci indica lo spettacolo di boschi e prati verdi accarezzati da folate di vento caldo. «Perché mai», si chiede sorpresa, «dovrei abbandonare tutto questo?».
Siamo 20 chilometri a est di Fukushima Daiini, la centrale maledetta e sfortunata. Quella colpita l’11 marzo scorso da un terremoto di 9,2 gradi, investita da uno tsunami con onde alte 12 metri; quella che ha seminato panico e inquinamento, che ha costretto alla fuga 100 mila persone, che ha contaminato per un secolo un territorio grande come l’Umbria, che è riuscita a mettere in crisi la produzione energetica di un gigante come il Giappone. Tre mesi dopo il disastro, causato dalla violenza della natura e dalle decisioni scellerate degli uomini, il territorio compreso nel raggio di sicurezza di 30 chilometri sembra un Eden rigoglioso condannato al deserto.
Lungo la provinciale 288, la strada che collega la città di Fukushima all’impianto nucleare, non c’è anima viva. Le rare automobili, gonfie di masserizie, sfrecciano senza fermarsi. A bordo ci sono gruppi di famiglie, finestrini e portiere sigillate, mascherine a tappare bocca e naso, che raccolgono piccoli oggetti personali nelle case lasciate troppo in fretta. Lo fanno a turno, autorizzati dalle autorità sanitarie della Prefettura: l’ultimo saluto ai ricordi di una vita andata in pezzi, che non sarà più come prima.
Eda, 63 anni, non ha resistito. È tornata qui a Tamura, piccolo villaggio immerso nella campagna, con suo figlio, tecnico della Tokyo electric power (Tepco) la società che gestice Daiini e che da 72 giorni lotta disperatamente per domare un mostro indomabile. Ha lasciato il palazzetto sportivo di Koriyama, la città più vicina, trasformato in un centro di accoglienza degli sfollati e si è rimessa a fare la vita di sempre. Con le sue cose, appunto: le galline e le anatre da allevare, l’orto da coltivare, la casa da rassettare, le passeggiate in mezzo al verde.
Per i giovani è più facile affrontare le giornate. Sono alla continua ricerca di un lavoro e accettano il primo che trovanoC’è assistenza e cibo, mancano però le prospettive Per le nuove case, in un ex parcheggio, c’è da aspettareL’urlo lacerante delle sirene, pompieri e ambulanze: c’è un incendio sui monti Ma non si sa se è veroAnziani che vagano tra campi incolti e ortaggi deformi. Famiglie che tornano a recuperare le loro cose tra le macerie. Artigiani che riaprono le botteghe. A più di due mesi dallo tsunami e dal disastro nucleare di Fukushima, a Tamura c’è chi vuol lasciare i centri di raccolta. E, sfidando le radiazioni, ricominciare a vivere.
Il figlio continua a lavorare tra i resti anneriti ed esplosi dei 6 reattori della centrale. Lo fa per soldi, per non perdere l’impiego, perché non ci sono alternative. Per rassegnazione. Si affida al fato. Di giorno dentro l’impianto, protetto da una tuta in plastica bianca, seguendo turni di dieci minuti ogni due ore; la sera, prima di tornare a casa, la visita di controllo per registrare la dose di radioattività accumulata.
L’uomo e sua madre vagano soli, a volte tenendosi per mano, tra campi che restano incolti. Sopra le zolle divelte affiorano ortaggi deformi. Finocchi grossi come meloni, ciuffi di insalata alti mezzo metro. Tamura è un villaggio di 100 abitanti: oggi è deserto e silenzioso. Tacciono perfino gli animali già emigrati altrove. Si ode solo lo scroscio di un piccolo ruscello.
La scuola elementare è abbandonata, l’impianto di benzina chiuso, le case sbarrate, le tende tirate sui vetri, le assi inchiodate alle porte, i pochi lampioni spenti, le imposte sbattute dal vento. Poi, improvvisamente, l’urlo lacerante della sirena dei vigili del fuoco: decine di camion, jeep e ambulanze corrono verso un incendio scoppiato su una montagna. Non sappiamo se sia vero. Bugie e verità continuano a mischiarsi.
In dieci chilometri, fino alla barriera della polizia che blocca la strada e impedisce l’ingresso a chiunque, abbiamo incontrato sei persone. Tutti anziani. Una coppia che gestisce un emporio, gli scaffali vuoti, venti confezioni di succhi di frutta, pacchi di fazzoletti, una decina di dentifrici, qualche scatola di piselli e fagioli. Due sorelle che si affannano a curare i fiori del giardino: grandi, enormi, i colori sgargianti. Un falegname che si ostina a tenere aperta la sua bottega. Un imprenditore edile che sogna di riprendere i piccoli lavori di manutenzione nel villaggio. Anche loro ci spiegano i motivi di una scelta che sta contagiando molti: tornare a casa per morire là dove si è nati e cresciuti. I programmi del governo non convincono. La vita nello “shelter”, il centro di raccolta, è monotona, precaria, senza futuro. L’efficienza giapponese resta intatta anche dopo tante settimane. C’è assistenza, cibo, solidarietà . Ma mancano le prospettive: c’è il vuoto, inevitabile, di sentimenti, di emozioni, di progetti. Gli alloggi futuri, la classiche case prefabbricate, disegnate e costruite con cura, stanno sorgendo in un vecchio parcheggio, sterrato, riempito a ghiaia e riadattato.
Saranno pronte a luglio e verranno consegnate secondo criteri che qui, nel paese delle regole, senza furbizie e favori, vengono rispettati: prima gli anziani e poi le famiglie con bambini. Ma c’è ancora da aspettare.
Nell’attesa si ricomincia: nuovo lavoro, nuova attività , nuove amicizie, nuove abitudini. I bambini da mandare a scuola, un alloggio improvvisato da sistemare, la coda per il pranzo e la cena, uno sguardo sui pc collettivi per restare in contatto sulla rete. La ricerca di notizie, di novità che ti facciano sentire vivo, importante. Una partita a scacchi, l’assistenza psicologica, il mercatino del venerdì con vestiti e scarpe offerte da tutto il mondo, capaci di regalarti sprazzi di allegria e distrazione. C’è vita ma prevale un senso di sconforto. È più facile per i giovani. Sono sempre in giro, alla ricerca di un posto, di un impiego. Fanno la fila davanti all’ufficio di collocamento, accettano il primo lavoro che trovano. Per gli anziani è diverso: restano sdraiati nei loro alloggi, piccoli cubi protetti da tende e divisi da telai in tubi di cartone pressato. Ricordano i pali di bambù: l’architetto che li ha progettati ha cercato di riprodurre le tipiche stanze giapponesi delle pagode.
Yonekawa, 52 anni, lavorava in un mobilificio. Anche lui ha dovuto sfollare dal suo villaggio. Ben, 43 anni e Hirohaka di 37, avevano un negozio di vestiti. Hanno due figli grandi, sono fuori a cercare lavoro. Anche loro dovranno ricominciare. Storie collettive, che si assomigliano. Raccontano, con voce stanca.
Restano seduti sul pavimento fatto di materassini dove la notte dormono e il giorno ascoltano la radio. Hanno una sola priorità che il tempo rende sempre più urgente, quasi un’angoscia: un nuovo alloggio. C’è bisogno di normalità , di certezze che possano restituire un senso a tutto. Qui dentro convivono 996 persone.
Ogni giorno vanno a guardare il cantiere delle nuove case: ne stanno costruendo 320. Sono a spese dello Stato che distribuisce anche dei sussidi: 600 euro a testa, 1000 per una coppia con due figli. Gli indennizzi arriveranno dopo. Si parla di 80, 100 miliardi di dollari. C’è da rimborsare un popolo di 100 mila persone che ha abbandonato tutto in fretta e in furia. Case, terreni, attività risparmiati dalla violenza della natura ma colpiti da quella dell’uomo.
Il governo si è scusato, ha promesso, si impegnato. Si sente in colpa per aver coperto i silenzi omertosi e le gravissime responsabilità di chi aveva in mano la vita degli altri. Il primo ministro Naoto Khan rinuncia allo stipendio per un anno, l’Imperatore Akihito ha decurtato le spese di Palazzo. Gesti pratici, seguiti da un risparmio collettivo che coinvolge l’intero paese nato e cresciuto sul consumismo compulsivo.
I tecnici della Tepco hanno sbagliato. È prevalsa la logica del business, a scapito della salute dell’uomo. Quattro dei sei reattori di Fukushima Daiini sono rimasti senza circuito di raffreddamento. La temperatura è salita a livelli proibitivi. Ci sono state esplosioni e incendi a catena. Solo dopo si è deciso di immettere acqua dal mare, evitata per non rovinare l’impianto con la salsedine. Troppo tardi. Le barre del combustibile cariche di isotopi radioattivi si sono arroventate, hanno liberato nell’atmosfera, assieme all’idrogeno, cesio 137 e iodio 131.
Oggi si scopre ciò che era apparso chiaro due settimane dopo il terremoto e il disastro di Fukushima: le barre si sono fuse e il loro carico di schifezze ha bucato la base della piscina di raffreddamento. Gli isotopi radioattivi sono sprofondati nelle viscere della terra. Non si sa dove si irradierranno. La centrale è irrecuperabile. Verrà sepolta sotto un sarcofago di sabbia, boro e cemento: l’annuncio adesso è ufficiale. Ottanta, forse cento chilometri quadrati sono compromessi. Restano in balia del vento, delle radiazioni che arrivano e svaniscono ad ondate.
Oggi ci sono 0,04 millisievert. Due settimane fa erano 170. Il presidente della Tepco, Matasaka Shimizu, rassegna le dimissioni. Atto formale, inevitabile dopo una perdita di 15,3 miliardi di dollari e un danno d’immagine all’azienda difficile da recuperare.
Eda, la contadina di Tamura, tutto questo non lo sa. Non vuole saperlo. Ha deciso di tornare e di restare. Si allontana con il triciclo elettrico. Si ferma di nuovo, torna a guardarci, con il suo viso chiuso in una smorfia di dolore. Piega la testa, accenna ad un inchino. Un addio composto, come vuole la tradizione.
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