by Sergio Segio | 17 Maggio 2011 9:38
Sono 1.152 al giorno, quarantotto all’ora, quattro ogni cinque minuti. Sono gli stupri che le donne della Repubblica Democratica del Congo subiscono costantemente, nel silenzio di un Paese che guarda alle violenze sessuali come a un fatto scontato e banale, una prassi dettata dalle circostanze e dalle abitudini. A denunciare la condizione assurda in cui vivono da decenni le donne congolesi è uno studio pubblicato negli Stati Uniti dalla rivista The American Journal of Public Health, risultato di un’indagine condotta su un arco di dodici mesi, dal 2006 al 2007, su un campione di diecimila donne, incrociando poi questi dati con il totale della popolazione. Dalle stime risulta che nel suddetto periodo sono state violentate 400.000 donne tra i 15 e i 49 anni, contro i 16.000 stupri registrati (in un anno) dalle Nazioni Unite. In altre parole, il numero degli stupri perpetrati nella Rdc nel corso di dodici mesi è di 26 volte superiore rispetto a quanto dichiarato dall’Onu.
La differenza di cifre deriva principalmente da un diverso modo di condurre le ricerche. Lo studio degli scienziati Usa – denominato “Estimates and Determinants of Sexual Violence Against Women in the Democratic Republic of Congo” – si basa sui dati forniti al governo congolese dalle strutture mediche diffuse sul territorio nazionale, dati che derivano da interviste faccia a faccia con le vittime delle violenze. Nel caso dell’Onu, si faceva invece riferimento ai rapporti redatti dalla polizia e dai centri sanitari. In realtà , spiega Amber Peterman, autrice dello studio, “anche queste nuove cifre, sebbene molto più alte, rappresentano una stima riduttiva rispetto all’effettiva incidenza del fenomeno”. Questo a causa della difficoltà , da parte delle donne, nel denunciare gli abusi subiti (per la vergogna e la paura), ma anche perché dall’indagine sono escluse determinate fasce d’età , così come gli uomini.
Un altro dato che emerge dall’indagine statunitense riguarda la diffusione delle violenze sessuali ben oltre i confini delle zone di guerra. Nella Repubblica Democratica del Congo lo stupro rappresenta una pratica consolidata da parte dei gruppi armati presenti soprattutto nell’est del Paese, l’area dove si concentra il conflitto che dilania il Paese ormai da anni. Forze di sicurezza, ribelli, miliziani e bande provenienti dai paesi vicini violentano sistematicamente donne e ragazze, spargendo il terrore e aggravando ulteriormente la già diffusa piaga dell’Hiv. Nel Nord Kivu, la provincia più colpita dalla guerra, 67 donne su 1000 sono state stuprate almeno una volta: più del doppio rispetto alla media nazionale, che parla di 29 donne su 1000 (negli Stati Uniti, le stime annuali si aggirano sullo 0.5 su 1000). Ma se andiamo a vedere le cifre relative alla provincia di Equateur (lontana dalle zone di guerra), scopriamo una media di 65 donne su 1000: un dato non solo superiore a quello nazionale, ma anche ad altre aree coinvolte nel conflitto. Commenta Michael VanRooyen, direttore dell'”Harvard Humanitarian Initiative“: “Le violenze sessuali nella Rdc si sono diffuse come metastasi in un generale clima di impunità , e si stanno imponendo come una delle peggiori crisi umanitarie del nostro tempo”.
Proprio l’impunità costituisce un’ulteriore difficoltà nella lotta contro questo fenomeno. Oltre alla colpevole indifferenza da parte delle autorità locali, bisogna fare i conti anche con le dinamiche interne ai villaggi. Una donna violentata è una donna respinta dalla propria famiglia, cacciata dalla propria casa come se fosse lei stessa responsabile dell’accaduto: ecco perché in molte preferiscono tacere, piuttosto che subire una così forte umiliazione. Non solo, ma spesso i carnefici non portano necessariamente la divisa da miliziani: secondo lo studio degli scienziati americani, circa il sessanta per cento delle vittime subisce violenze da parte del proprio compagno. Molti militari, tornati alla vita civile, continuano a commettere abusi nella loro stessa comunità , se non addirittura in famiglia, semplicemente sulla scia dell’abitudine. Una banalizzazione del gesto che ha conseguenze devastanti. “Quando erano le bande armate a violentare le donne – spiega un medico di Bukavu, nel Sud-Kivu – queste potevano denunciarlo più facilmente. Oggi, gli stupri avvengono nel villaggio dove si è obbligate a vivere, proprio accanto a coloro che commettono le violenze, e che – in quanto parte della comunità – si sentono tutelati. Molte donne allora non osano più parlare, per paura di rappresaglie“.
A fronte di tutto ciò, c’è chi preferisce ancora una volta guardare altrove e fingere di non capire. Uno per tutti, il portavoce del governo congolese, Lambert Mende, che commentando per la Bbc i risultati dell’indagine statunitense, ha spiegato così le cifre superiori rispetto agli studi precedenti: “Il rapporto di questi scienziati mette in evidenza che lo Stato è diventato più efficiente nell’inviare sul territorio giudici e forze di polizia“. Insomma, si registra un numero più alto di stupri semplicemente perché maggiori sono le possibilità di denunciarli. Dovremmo anche dire grazie? Se queste sono le premesse, resta ben poco da sperare.
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