“Vendetta per la morte del figlio del raìs”

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BENGASI – Vendetta. Questo ha chiesto la folla che partecipava ai funerali del figlio più piccolo di Muammar Gheddafi, Saif al-Arab, presumibilmente ucciso sabato notte da un missile lanciato dai caccia della Nato. «Vogliamo vendetta per i nostri martiri e vogliamo che adesso il Colonnello colpisca i Paesi dell’Alleanza», gridava ieri il migliaio di sostenitori del governo libico, accompagnando al cimitero al-Hani il feretro coperto di fiori e avvolto nella bandiera verde della Jamahiriya. Non c’era Gheddafi alle esequie, ma c’erano i suoi figli, Hannibal e Saif al-Islam, intabarrati in scuri abiti tribali. La Nato non ha voluto confermare la morte di Saif al-Arab, su cui molti osservatori continuano a esprimere dubbi, come se la sua uccisione fosse un bluff destinato a ingraziarsi il sostegno di alcuni Paesi. L’unica, parziale convalida è giunta da monsignor Martinelli, vicario apostolico di Tripoli, il quale però fonti diplomatiche considerano «ostaggio del Colonnello». Dice Martinelli: «Una delle salme che ci hanno portato a vedere era il figlio di Gheddafi, ma il cadavere era troppo sfigurato per un riconoscimento certo». Da Bengasi, intanto, il presidente del Consiglio nazionale di transizione, Mustafa Abdel Jalil, dichiara di provare «pena e dolore» per la famiglia di Muammar Gheddafi, ma addossa al leader libico la responsabilità  di quanto è accaduto. «Il sangue dei figli di Gheddafi non è più prezioso del sangue di uomini e donne della Libia, e il Colonnello continua a bombardare le nostre città  e uccidere la nostra gente». Sempre nel capoluogo della Cirenaica, gli insorti hanno ieri accolto con soddisfazione la notizia della morte di Osama Bin Laden, e chiesto un’analoga iniziativa contro Gheddafi. «La morte di Bin Laden segna la fine di una gran parte del terrorismo internazionale, e sarebbe un bel regalo se gli Stati Uniti uccidessero anche il Colonnello», ha detto un portavoce delle forze democratiche, Ahmed Omar Bani, mentre sulla piazza del Tribunale, dove il 17 febbraio scorso è nata la rivolta, gli shabab, i giovani combattenti della Libia liberata, scaricavano i loro kalashnikov verso il cielo. Dopo gli attacchi di domenica alle rappresentanze diplomatiche di Italia e Gran Bretagna, nonché alla sede dell’Onu di Tripoli, anche la Turchia ha ieri evacuato la sua ambasciata per «motivi di sicurezza». Ora, Ankara ha grossi interessi economici in Libia e, dall’inizio della crisi, ha cercato di svolgere un ruolo di mediazione tra Gheddafi e le potenze occidentali. Da quando è stata adottata la risoluzione Onu, l’ambasciata turca curava anche gli interessi, tra gli altri, di Italia, Gran Bretagna e Australia. Sul terreno proseguono intanto i combattimenti. A Misurata, cinque carri armati delle forze leali al Colonnello hanno tentato di sfondare le linee di difesa degli insorti. La loro avanzata verso il centro della città  è stata fermata, intorno a mezzogiorno, solo dall’intervento dei caccia della Nato. Nel pomeriggio nuovi raid hanno preso di mira le forze pro-Gheddafi stazionate in periferia, mettendo fine al lancio di razzi sul porto, fondamentale per l’approvvigionamento di armi e aiuti umanitari. Bilancio della giornata di guerra: dieci morti tra la popolazione civile. Sempre ieri, e sempre al porto, le forze navali dell’Alleanza hanno distrutto due delle tre mine disseminate dalla marina libica. «Le mine sono piccole e difficili da rilevare», secondo quanto reso noto dal comando della Nato. Il quale dovrà  adesso decidere se chiudere lo scalo per evitare rischi alle navi umanitarie in entrata o in uscita.


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