by Editore | 9 Maggio 2011 5:56
Il 1° novembre 1755 un terribile terremoto distrusse gran parte di Lisbona. I morti ammontarono a varie decine di migliaia. Di fronte a una tale catastrofe l’emozione nell’Europa del tempo fu enorme, e non si limitò alla pietà per le vittime innocenti e al rammarico per le distruzioni materiali. La catastrofe, infatti, pose inquietanti interrogativi alla cultura europea dove, nel contesto dell’Illuminismo, era aperto il dibattito sulle condizioni della vita umana e sulla capacità di percorrere le vie di un via via maggiore progresso morale, civile e politico.
All’interno delle correnti filosofiche coloro che invocavano il diritto dei lumi della ragione di ergersi a guida del cammino degli uomini e della società si contrapponevano a quanti consideravano una simile pretesa una pericolosa manifestazione di orgoglio. Poco dopo i fautori e gli ideologi del progresso trovarono nelle meraviglie della rivoluzione industriale iniziata in Inghilterra, nelle nuove invenzioni e nelle nuove macchine un ulteriore potente motivo per credere nelle «magnifiche sorti e progressive» aperte dall’unione di scienza, tecnica e incremento produttivo. Parve che spirito e materia, scienze morali e scienze naturali si dessero la mano nell’aprire il primo capitolo della storia dell’idea moderna di progresso.
Tra coloro che dal terremoto del 1755 furono sconvolti vi era il grande Voltaire, che nel dicembre di quello stesso anno si diede a farne l’argomento del suo Poema sul disastro di Lisbona e poi vi tornò in Candido o dell’ottimismo, pubblicato nel 1759. Voltaire credeva convintamente nel progresso, nella possibilità degli uomini di migliorare se stessi e la loro vita, ma detestava i beati ottimisti, che immaginavano il mondo come il migliore tra quelli possibili. Per lui la ragione era uno strumento tanto importante quanto delicato, non però un bene garantito e i lumi che venivano da un uso opportuno di essa dovevano essere costantemente protetti dalle potenziali minacce. Quindi il progresso si presentava incerto, e solo possibile. In un verso del Poema disse che ritenere che «tutto è bene oggidì» costituiva una mera «illusione»; e nel Candido, ancora con riferimento al terremoto, satireggiò Pangloss il quale ripeteva che in ultima analisi tutto è destinato a risolversi per il meglio.
L’idea problematica che gli illuministi avevano del progresso venne letteralmente capovolta dallo scientismo sia positivistico sia marxistico, il quale, nella presunzione di essersi impadronito delle leggi dello sviluppo umano, predicò che il progresso, divenuto necessario e irresistibile, consentisse la pianificazione del futuro dell’uomo. L’incarnazione estrema ed ultima di queste correnti ideologiche fu il mondo comunista crollato alla fine del secolo scorso. Ma, caduto il mito che la conoscenza delle leggi della società desse alla politica i mezzi per creare finalmente il «mondo nuovo», era sopravvissuta l’altra componente dell’ideologia del progresso necessario e irresistibile: quella dello sviluppo senza sosta prodotto dall’unione felice tra scienza e tecnologia. E in effetti in questo campo i risultati sono stati strabilianti, fino a generare un senso di onnipotenza. Il disastro di Cernobyl fu una immane tragedia, ma non scosse la fiducia dominante, poiché venne archiviato come il risultato di una colpevole inadeguatezza tecnologica.
Ma eccoci di fronte alla torcia nucleare di Fukushima. Credo che la catastrofe che ha colpito il Giappone abbia un significato simbolico paragonabile a quello del terremoto di Lisbona del 1755. Allora quello ebbe il valore di ammonimento circa la connaturata fragilità dell’esistenza umana, soggetta ad essere in ogni momento colpita dalla presenza e dagli effetti di un male ineliminabile con cui ogni uomo era tenuto a fare i conti. Oggi l’ammonimento che viene dal Giappone ha ancor sempre quel significato, ma unito ad un altro: il crollo del mito dell’onnipotenza scientifico-tecnologica, spazzato via da un terremoto unitosi ad uno tsunami. Alla vigilia dell’immane disastro che lo ha messo in ginocchio, umiliato e gettato in preda alla paura, il Giappone, uno dei paesi massimamente avanzati del globo, presentava le proprie centrali nucleari come le più progredite e assolutamente sicure e in quanto tali le offriva sul mercato mondiale. Sennonché l’immaginabile ha bussato bruscamente alla porta.
La natura resta quella che Voltaire vedeva e temeva e la presunzione di una tecnologia che riteneva di poter resistere ad ogni sfida è stata colpita come mai prima. Al punto che il governo giapponese, spaventato dalle tante centrali che popolano il suo paese, ha pronunciato le parole che mai aveva pensato di poter e dover pronunciare: occorre seguire senza ritorno la strada dell’energia pulita, e cioè sì la via del progresso, ma quella che non minaccia la vita umana, quella dell’uso prudente e accorto delle risorse offerte dalla ragione. Poiché, come diceva Voltaire, non “tutto è bene”: neppure quando offerto dalla marcia trionfale della scienza e della tecnologia.
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