Quel che manca agli italiani per essere felici

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Giuseppe Di Vittorio, forse il più grande sindacalista italiano del secolo scorso, concludeva spesso i suoi comizi raccontando a chi lo ascoltava: «La storia è come un treno, anzi un carro che è mezzo affondato nel fango e non ce la fa più ad andare avanti. È il treno del progresso, per tutti. Ma adesso ci siamo noi che lo spingiamo, con le nostre lotte. Più lo spingiamo, più il treno va avanti. E alla fine arriva dove noi vogliamo». 

Le cose sono andate più o meno così: il treno del progresso è partito nel nostro paese negli anni in cui Di Vittorio chiamava a raccolta i giovani, i contadini, le donne, i disoccupati. Ma non è andato dove pensavano Di Vittorio e coloro che lo ascoltavano. È andato dove noi non immaginavamo. E dove non immaginava nemmeno la nonna di Mario Calabresi, la quale raccontava al nipote che solo a quarant’anni aveva finalmente conquistato la sua libertà , quando in casa era entrata la prima lavatrice americana, «ed ero riuscita, dopo tanto tempo, finalmente, a leggere un libro. Ed ero felice…». Ma la televisione, insiste il nipote, il computer, l’aereo, il telefonino? E la nonna che pure usa e apprezza telefonino, aereo e computer ribadisce: «No, è stata più importante la lavatrice, l’unica che ha fatto davvero la differenza e ha messo fine a secoli di fatica delle donne».
Parte da qui il viaggio del giovane direttore della Stampa per capire cosa ci ha dato la felicità  e perché oggi gli oggetti che riempiono le nostre case e il nostro tempo non ci danno la felicità  di quella vecchia lavatrice (il suo nuovo libro s’intitola Cosa tiene accese le stelle. Storie di italiani che non hanno mai smesso di credere nel futuro, Mondadori, pagg. 130, euro 17). Il viaggio di Calabresi è dunque in primo luogo un viaggio nel nostro passato quando si moriva per malattie oggi scomparse, quando la maggioranza degli italiani vivevano in case affollate, quando in gran parte d’Italia si mangiava la carne solo nei giorni di festa, e i bambini per andare a scuola, quando ci andavano, dovevano fare chilometri a piedi. Eppure, si chiede Calabresi, perché nonostante l’aumento del Pil e l’innegabile progresso, guardiamo con nostalgia al passato, perché tanti ragazzi consumano le loro vite nelle notti da sballo o, nel migliore dei casi, sognano di lasciare, prima possibile, il nostro paese? Non sarà  che il treno di cui parlava Di Vittorio è andato da un’altra parte e non basta l’aumento del Pil a fare la felicità ?
Nel corso di questo viaggio per capire le ragioni del nostro scontento, Calabresi incontra medici, scienziati, sociologi che sono rimasti in Italia e quelli che hanno avuto il coraggio di emigrare e hanno avuto successo. Ecco allora Loris Degioanni da Vinadio, che vive a Davis in California dove ha trasformato la sua tesi di laurea in ingegneria informatica in un’azienda con trenta dipendenti che ha appena venduto per 25 milioni di dollari. Ed ecco Federico Grom e Guido Martinetti che si sono inventati gelatai e che, puntando all’eccellenza, hanno conquistato New York e nel 2009 sono sbarcati in Giappone. Non è ancora partita ma penso che a suo tempo partirà  la piccola marocchina che a tredici anni e con un solo nove in pagella (tutti gli altri sono dieci) è stata scelta per rappresentare la Liguria a Montecitorio nel corso di una cerimonia dedicata ai migliori studenti italiani. La bambina si chiama Amal, il padre è arrivato qui trent’anni fa, ha sempre lavorato come camionista, muratore e pizzaiolo, ma non ha ancora la cittadinanza italiana. Quando se ne andrà  Amal?
Cosa ci manca allora per essere felici, perché cerchiamo altrove la nostra realizzazione, il successo? «Ci manca lo spazio», spiega Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Censis, uno dei personaggi intervistati da Calabresi. «Gli anziani che hanno nostalgia del passato e i giovani che pensano di avere avanti il nulla soffrono della stessa malattia, mancano di spazi e di orizzonti. Cinquant’anni fa tutti abbiamo avuto, davanti a noi un grande spazio di crescita, economico e sociale. E lì tutti siamo cresciuti. È di questo cambiamento che parlano, con nostalgia, i più anziani». Anche Mario Deaglio, già  direttore del Sole-24 ore, attribuisce il nostro disagio alla mancanza dello spazio, «una sensazione di asfissia, aggravata dalla quantità  abnorme di burocrazia, tasse, costi e regole che gravano su ogni attività . Ma non è così in tutto il mondo: le mie studentesse cinesi sono piene di entusiasmo, lavorano duro, vanno all’università  e sono figlie di ex contadini che sono riusciti ad aprire una tintoria».
«Il concetto di spazio è fondamentale per capire i problemi dell’Italia di oggi», dice Juan Carlos De Martin, che, reduce da una esperienza americana, è tornato per insegnare al Politecnico di Torino. «Negli Stati Uniti tutto è più largo e mobile, la loro è una società  con più opportunità , quindi con meno invidia. Qui invece quelli che hai intorno, i parenti i colleghi o gli amici, te li tieni per tutta la vita e questo ti frena e ti inibisce».
La mancanza di spazio, la mancanza di opportunità  e di futuro: ecco cosa ci rende sfiduciati, infelici. Ma, sostiene De Rita, sulle macerie morali del turbo-consumismo, la cui crescita dopata ha ucciso i desideri, forse è ancora possibile darsi una disciplina esistenziale, fissare dei traguardi e poi mettersi in marcia senza vittimismi. Far ripartire insomma quel treno di cui parlava Di Vittorio tanti anni fa.


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